domenica 22 febbraio 2009

sighit israele ha bisogno della turchia

torra agoa<

HU:
Hai un ultimo messaggio per il mondo e il popolo turco?

GA: Non amo esprimere messaggi finali per tre motivi:
1. Non mi piacciono le dichiarazioni finali, insisto nel riservarmi la possibilità ricredermi e voglio poter rivedere le mie opinioni su qualsiasi argomento.
2. Credo che la gente che esprime “messaggi finali” debba essere molto importante e intelligente. Io sono soprattutto un artista. Guardo in me stesso e condivido quello che vedo con i miei ascoltatori e lettori.
3. Diversamente dai politici che sanno quello che è giusto e sbagliato per gli altri, io so a malapena quello che è giusto per me.

Comunque il mio metodo, per così dire, è molto semplice. Sono alla ricerca di una voce etica. Questo significa che in ogni circostanza cerco di capire da solo quello che è giusto e quello che è sbagliato. Non credo nel dogmatismo. Insisto sul fatto che la ricerca etica è un processo dinamico, un fare e disfare.

Circa una settimana fa un mio amico, il leggendario musicista Robert Wyatt, mi ha aiutato a formularlo nel modo più semplice ed eloquente. “Il mio metodo”, ha detto, “è molto semplice. Sono solo antirazzista”. Ed è veramente tutto qui, si tratta semplicemente di essere “antirazzista”.

Sono assolutamente contrario a tutte le forme di politica razzista, ed è per questo che disprezzo tutte le forme di politica ebraica, di sinistra, destra o centro. Sono stufo di tutte queste impostazioni “per soli ebrei”. Che si tratti dello “Stato per soli ebrei” o degli “ebrei per la pace”. Sono contrario perché queste cose servono a promuovere gli interessi tribali ebraici invece dell'umanità e della fratellanza. L'esperienza politica ebraica è in un certo senso sempre orientata in senso razziale e intrisa di sciovinismo.

Anche se sono convinto che la gente abbia il diritto di lottare per i propri diritti, come nel caso della lotta nazionale palestinese, credo anche che debba sapere come ristabilire la pace e l'armonia. Ed è questo che manca nella politica israeliana ed ebraica. Vediamo solo rabbia e vendetta, che producono una violenza sempre maggiore. È evidente che gli israeliani non hanno molta familiarità con il concetto di misericordia e compassione. Il suggerimento spiritualmente armonioso di Gesù noto come “porgi l'altra guancia” per gli israeliani è una stupidaggine. A quanto pare sono più attratti da “terrore e sgomento”. Votano democraticamente per il massacro, la distruzione e il genocidio. In fin dei conti hanno il diritto di votare. Sono l'“unica democrazia del Medio Oriente”, o almeno così dicono.


Originali: Hasan Uncular of Timeturk interviews Gilad Atzmon


Manuela Vittorelli è membro di
Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.



URL di questo articolo su Tlaxcala: http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=7025&lg=it


sadefenza<<

venerdì 20 febbraio 2009

sighit....Un islamismo aperto a sinistra: siamo di fronte all'emergere di un nuovo terzomondismo arabo?

torra agoa<<

Un nuovo modello di alleanza politica in Palestina e altrove
Le prime elezioni municipali in Cisgiordania dal 1976, che si sono tenute il 23 dicembre 2004, posero allora un interrogativo: Hamas prenderà il sopravvento su Al-Fatah? Quale sarà il rapporto di forza politica tra gli islamismi, il movimento nazionalista e la sinistra alla fine dello scrutinio? La risposta non era a senso unico: le elezioni municipali non sono state oggetto di una chiara strutturazione del campo politico. Al contrario, alcune coordinate sono state sconvolte, e sembra che alcune tendenze siano state confermate. Piuttosto che un'inesauribile opposizione tra campi nettamente delimitati – Fatah, Hamas, FPLP, FDLP, PPP [1] – localmente si sono costituite nuove alleanze, fluttuanti e congiunturali. A Bnei Zayyaid, così come a Betlemme, un'alleanza tra FPLP e Hamas permise di contestare ad Al-Fatah il predominio politico in seno al Consiglio Municipale. A Ramallah, un anno più tardi, fu una donna membro del FPLP ad essere eletta a capo del municipio, aggiungendo i tre seggi di Hamas ai sei del FPLP e mettendo in minoranza i sei consiglieri municipali di Al-Fatah.

Queste nuove alleanze si sono ugualmente configurate nel campo delle azioni militari: le frange armate del FPLP (le Brigate Abu Ali Mustafa) hanno regolarmente operato dal 2001 nella Striscia di Gaza al fianco delle Brigate Ezzedine al-Quassem (la frangia armata di Hamas) e delle Brigate al-Quds (quelle della Jihad Islamica). Infine, alcuni elementi dissidenti di Al-Fatah, strutturati intorno alla nebulosa dei Comitati di Resistenza Popolare (CPR), si sono poco a poco avvicinati alla direzione “gazaista” di Hamas: quest’ultimo, dopo la sua vittoria alle elezioni legislative del gennaio 2006, nominò uno dei principali attivisti dei CPR, Jamal Samhadana [2], ex militante di Al-Fatah, a capo dei nuovi servizi di sicurezza palestinesi formati dal governo di Hamas; si trattava allora di fare da contrappeso, soprattutto nella Striscia di Gaza, alle forze di sicurezza dirette da Mohammad Dahlan, dirigente di Al-Fatah. Samhadana simboleggia questa frangia di Al-Fatah che si è poco a poco allontanata dalla direzione del partito, e che conferma il suo progressivo sviluppo, accelerato dalla morte di Yasser Arafat l’11 novembre 2004, la cui aura simbolica permetteva di assicurare ancora un minimo di unità interna. È così che Saed Siyyam, il nuovo Ministro degli Interni palestinese, membro di Hamas, ha scelto un ex-membro di Al-Fatah, ovvero un elemento politico uscito dal nazionalismo palestinese (e non dal movimento islamico stesso) per dirigere i servizi di sicurezza senza altro scopo (…) se non quello di concorrere sul terreno del predominio armato della Sicurezza preventiva, associata alla direzione di Al-Fatah.

Gli scontri Fatah-Hamas degli ultimi due anni corrispondono a una divergenza politico-strategica, a una differenza riguardo alla posizione da adottare di fronte a Israele e alla comunità internazionale, non a una querelle ideologica laici-credenti. E nel momento in cui i due partiti maggiori Fatah-Hamas favoriscono con il loro scontro fratricida un processo di guerra civile latente, sono il FPLP e il Movimento della Jihad Islamica (MJIP) – ovvero un’organizzazione di sinistra e un’organizzazione islamica – a ricoprire solitamente il ruolo di intermediari. Se il FPLP resta oggi scettico verso Hamas, ciò avviene perché il primo rimprovera al secondo di chiudersi in un testa-a-testa armato Hamas-Fatah, che frena l’unità nazionale palestinese e che rischia di precipitare i territori palestinesi nel caos dell’ordine pubblico. E ancora una volta questa posizione viene condivisa dal FPLP con la Jihad islamica, insieme alla quale ha potuto manifestare nelle strade di Gaza durante gli avvenimenti del giugno 2007.

La cartografia politica palestinese non fa eccezione: il campo politico arabo sembra essere in piena ricomposizione, e le tradizionali divisioni, in particolare quelle che avevano visto opporsi i campi religioso e secolare, o laico, sono poco a poco sfumate in tutta la regione. L’islam politico subisce una fase ormai accelerata di nazionalizzazione e regionalizzazione, mentre i settori nati dalla sinistra e dal nazionalismo arabo, baathista o nasseriano, che si trovano a perdere un modello politico e un partner strategico e sono in preda a una crisi strutturale e militante, tentano poco a poco di ridefinire i propri modelli ideologici e pratici, e si ritrovano obbligati a diversificare la loro rosa di alleanze privilegiando così il partner islamico. A partire dal 2000, nel mondo arabo si è aperta una fase di ricomposizione politica, secondo ritmi e tempi eterogenei a seconda dei paesi e degli spazi, segnando alcuni punti di contatto con il passato e portando con sé problematiche e fratture nuove.

Questa ricomposizione politica si gioca intorno alla questione nazionale araba e alla questione democratica: in un contesto politico segnato dall’Intifada palestinese del settembre 2000, dall’offensiva americana contro l’Iraq nel 2003, così come dalla recente «guerra dei trentatré giorni» tra Hezbollah e Israele, la questione nazionale è stata riposta nel mondo arabo, e determina i modelli di azione e contestazione, le forme di ricomposizione politica e le differenti modalità di alleanza tattica tra le correnti che si oppongono al piano americano di «Grande Medio Oriente». A ciò si aggiunga la questione democratica: nella misura in cui i sistemi arabi soffrono in larghissima parte di un modello fondato sull’autoritarismo e il nepotismo politico, e la maggioranza di essi (dall’Egitto alla Giordania, passando per l’Arabia Saudita e le principali petro-monarchie del Golfo) si ritrovano organicamente legati ai diversi interessi americani ed europei nella regione, la contestazione nei confronti della politica israeliana e americana passa spesso per una denuncia dei sistemi politici interni; in Egitto, negli anni dal 2000 al 2006, sono stati gli stessi quadri politici e le stesse strutture di mobilitazione a passare di volta in volta dalla mobilitazione in favore dei palestinesi e degli iracheni a quella in favore della democratizzazione del regime.

Questione nazionale araba e questione democratica tracciano dunque una serie di avvicinamenti trasversali tra lo spazio panarabo storicamente focalizzato sulla problematica palestinese e lo spazio nazionale interno: dal 2000, un’interazione costruttiva tra la dimensione panaraba della politica e la sua espressione nazionale interna, e una trasversalità accresciuta tra questione nazionale araba e questione democratica, favoriscono una serie di mutamenti politici che portano ad alleanze tattiche e/o strategiche tra la sinistra radicale, i settori nati dal nazionalismo arabo nasseriano o baathista e, infine, le formazioni islamico-nazionaliste. Questa interazione fra differenti spazi – nazionali, regionali, globali – così come questa trasversalità tra correnti politiche un tempo opposte, permettono che si delinei poco a poco una riformulazione del nazionalismo arabo, una ricomposizione politica lenta e progressiva del campo politico che comincia appena a sconvolgere i dati politici, e che rompe specialmente con gli scenari d’azione generati dalla storia del XX secolo.

Dal «concordismo politico» alla dinamica unitaria
La sinistra di ispirazione marxista, i nazionalismi arabi di diversa osservanza e infine i settori centrali dell’islam politico sembrano oggi collaborare a stretto contatto. Non è stato però sempre così: i differenti tipi di nazionalismo arabo si sono distinti per vari decenni attraverso politiche repressive a fronte di correnti che derivavano dai Fratelli musulmani, che si trattasse dell’Egitto di Nasser o della Siria di Hafez el-Assad; l’islamismo politico, nella sua fase crescente degli anni ’80, in seguito alla rivoluzione iraniana del 1979, si è da parte sua caratterizzato come un sistema di repressione diretta dei gruppi di sinistra allorché questi erano di intralcio al suo sviluppo e affondavano le loro radici in alcuni settori chiave del mondo universitario, politico, sindacale o associativo. In Libano, durante tutti gli anni ’80, Hezbollah se la prese fisicamente con i militanti sciiti del Partito Comunista libanese nel momento in cui si trattò di contendere loro l’egemonia della resistenza nazionale nel sud del Libano. Due dei suoi più brillanti intellettuali, Mahdi Amil e Hussein Mroue, furono assassinati da militanti vicini all’orbita islamica [3].

In Palestina, i gruppi che si evolvevano nella nebulosa dei Fratelli musulmani e che stavano dando alla luce il Movimento della Resistenza Islamica (Hamas) nel 1986, a loro volta se la presero con i militanti del FPLP e del PPP. Il dottor Rabah Mahna, che è oggi il negoziatore dell’Ufficio Politico del FPLP nelle discussioni intra-palestinesi e che si trova regolarmente a cercare dei punti d’intesa tanto con Hamas quanto con la Jihad Islamica, fu per esempio vittima di un tentato omicidio da parte dei militanti di Hamas nel 1986. Ma la visione che ha del movimento islamico è determinata dalla realtà politica attuale, non da quella del passato: parlando di Hamas, ne sottolinea i punti di progresso e di stagnazione, e il modo in cui entrambi si combinano più o meno diversamente secondo la congiuntura politica: «troviamo una certa evoluzione all’interno di Hamas. Dal 1988, si è in effetti poco a poco trasformato da una organizzazione del tipo dei Fratelli Musulmani in un movimento di liberazione nazionale islamico. Noi abbiamo spinto poi Hamas ad integrare l’OLP, fare in modo di essere un movimento di liberazione nazionale in seno all’OLP. Ma il suo rifiuto a riconoscere l’OLP alla fine era per noi molto sospetto (…). Non facciamo pressione su Hamas, quindi, e lo riconosciamo in quanto corrente della resistenza, e secondariamente come governo eletto. Ma al di là di questo non vogliamo che Hamas resti bloccato in una visione chiusa, ideologica, dello stesso genere di quella dei Fratelli Musulmani: è per questo motivo che le forze politiche mondiali e arabe che sostengono la causa palestinese, ma che non sono d’accordo con tutto o con parte del programma di Hamas, devono aiutarci a farlo uscire da una visione chiusa in se stessa e a continuare la sua evoluzione. Altrimenti, isolandosi, si rischia che torni indietro, ripiegando verso un movimento di tipo integralista, come prima del 1988 [4]».

Se in passato ci sono stati scontri, le differenti modalità di opposizione tra nazionalisti, islamismi e sinistra radicale possono essere storicamente relativizzate tramite una serie di passaggi dinamici, di prestiti discorsivi e ideologici, di circolazione militante tra questi tre settori politici chiave del mondo arabo: già il sociologo Maxime Rodinson ricordava che tra il nazionalismo arabo, l’islam e il marxismo esisteva un «concordismo», che favoriva la circolazione di idee e pratiche. «L’incompatibilità dottrinale incontestabile tra varie ideologie cede a diversi processi di conciliazione quando le considerazioni sulla strategia internazionale fanno propendere verso un atteggiamento amichevole tra i due movimenti (comunisti e musulmani). Troviamo prestiti d’idee all’ideologia comunista da parte dei Musulmani quando queste idee corrispondono a ciò che la loro ideologia implicita rivendica, anche al di fuori di questo atteggiamento amichevole. […] Quando ci si spinge ancora oltre, avviene normalmente una reinterpretazione di nozioni, idee, simboli musulmani come equivalenti d’idee o di temi comunisti correnti. L’operazione avviene spesso per mano dei comunisti che vogliono spingere all’alleanza. Quando lo sforzo di reinterpretazione è particolarmente forzato, si ottiene quello che abbiamo chiamato concordismo. Il termine potrebbe essere forse generalizzato per indicare un insieme sistematico di reinterpretazione [5]».

Ciò che Olivier Carré chiamava i «settori mediani» tra religione e nazionalismo [6] è un fenomeno che si può osservare lungo tutto il secolo e nella nascita e sviluppo di queste tre correnti. La generazione dei fondatori del movimento nazionale e di Al-Fatah - Yasser Arafat, Khalil al Wazir, Salah Khalaf – hanno camminato fianco a fianco con i Fratelli Musulmani nel corso degli anni ’50 e ’60. Il nasserismo stesso non è esente, nei primi anni che seguono la rivoluzione del 1952, da un rapporto complesso con l’islam politico. A questi percorsi personali si aggiungono una riutilizzazione e una reinterpretazione sistematica dei differenti tipi di discorso religioso o politico da parte di una serie di movimenti, una circolazione permanente di insiemi semantici e concettuali. Per esempio, il Partito Comunista Iracheno (PCI), non ha esitato a fare riferimento ai fondamenti dottrinali dello sciismo poco dopo la rivoluzione del 1958 e la presa del potere da parte di Abdel Karim Kassem. La prospettiva rivoluzionaria fu associata, nel discorso del PCI, ai fondamenti millenaristi e messianici dello sciismo, mentre i dirigenti del Partito giocavano arditamente sulla prossimità tra i termini shii'a (sciita) e shoyou 'i (comunista in arabo). Quanto al termine socialista (ishtarâkii), fu largamente utilizzato e trasformato da certi quadri e ideologi dei Fratelli Musulmani, come Sayyid Quotb o Muhammad al-Ghazali, nella prospettiva di un «socialismo islamico».

Si assiste così, dopo circa mezzo secolo, a una circolazione dinamica e a una mutazione continua del vocabolario politico. È come dire che l'ideologia stessa si è sottomessa a dei complessi processi di passaggio, di prestiti e di reinterpretazioni che restano in perenne movimento una volta entrati nella pratica politica. La temporalità del nazionalismo dei paesi del Terzo Mondo è in effetti una temporalità politica differenziata, in cui il passato, le tradizioni culturali e le eredità ideologiche figurano come i costituenti primi della coscienza nazionale: il nazionalismo anticoloniale è uno spazio ibrido, che interagisce con gli elementi della modernità politica, ma che si pone criticamente rispetto ad essi per quanto riguarda il recupero, il riciclaggio e il reinvestimento degli elementi estratti dal passato. I «concordismi» tra nazionalismo e islam hanno corrisposto ad un’attualizzazione politica e ideologica dell’Islam, che allora non era tanto un residuo del passato quanto un elemento culturale ereditato, vivo e pratico, in interazione e mescolanza permanente con il presente politico, anche e soprattutto quando era di essenza secolare e laica. Il nazionalismo anticoloniale, fondato storicamente su una serie di «concordismi», non è il contrario della modernità, ma la sua ripresa e trasformazione nel contesto particolare di uno spazio che si sente dominato tanto politicamente quanto culturalmente.

Il decennio degli anni ’80 è essenzialmente segnato dal passaggio crescente e spettacolare dei militanti marxisti, spesso maoisti o nazionalisti arabi, verso l’islamismo politico. Ciò è particolarmente evidente in Libano dove, quando l’OLP viene poco a poco portato a lasciare il Paese dei Cedri e l'asse «palestino-progressista [7]» scompare sotto i colpi delle divisioni interne e delle pressioni siriane, i giovani quadri entrano in Hezbollah, nato tra il 1982 e il 1985. Lo stesso accade alla maggioranza dei combattenti della Brigata Studentesca, la Katiba Tullabiya, corpo militare associato al movimento palestinese Fatah, che si impegna poco a poco nella resistenza militare islamica del «Partito di Dio», o in altre strutture di carattere islamico, sotto gli effetti della Rivoluzione Iraniana.

L'esperienza di questa tendenza di sinistra di al-Fatah nata all'inizio degli anni '70 è particolarmente interessante: ben prima della rivoluzione iraniana, dei giovani militanti libanesi e palestinesi tentano di articolare islam, nazionalismo e marxismo arabo, prova che la questione dei rapporti fra i tre era già posta. Saoud al Mawla, oggi professore di filosofia all'Università Libanese di Beirut, ex membro della frangia di sinistra di al-Fatah, è passato ad Hezbollah negli anni '80, lasciandolo poi in seguito. E spiega: «negli anni '70 ci si iniziava ad interessare alle lotte dei popoli musulmani. Era un misto di nazionalismo arabo e islam, o meglio di comunismo arabo-islamico, di marxismo arabo-islamico. Si tentò di fare come i comunisti musulmani sovietici degli anni '20 (Sultan Ghaliev), e si iniziò a studiare l'Islam dal momento in cui si cominciò ad applicare i principi maoisti: bisogna conoscere le idee del popolo, interessarsi al popolo, a ciò che pensa... bisogna conoscere le tradizioni del popolo. In tal modo esordì l'interesse per le tradizioni popolari, e per tutto ciò che costituisce la vita delle persone. E l'Islam, in quanto fondamento di questa società, è stato considerato capace di mobilitarla. E ciò in un senso militante, pragmatico - prendere e utilizzare i fattori che possono mobilitare le persone alla lotta. È in questo modo che ci si è accostati all'islam: a partire dal maoismo, da un punto di vista teorico, e a partire dall'esperienza quotidiana (...) ed è per questo che, al momento della rivoluzione iraniana, si era già a quel punto. E neanche questo è stato fatto su basi ideologiche o religiose, cioè si è vista nell'Islam una forza civilizzante, politica, una corrente apportatrice di civiltà che potesse raggruppare cristiani, marxisti e musulmani, una riflessione, una risposta immediata, un cammino di lotta per rinnovare i nostri approcci, le nostre idee, le nostre pratiche politiche [8]». Se gli anni '70 possono ancora prestarsi presso certi militanti a una riflessione teorica e politica sull'articolazione tra marxismo, islam e nazionalismo, gli anni '80 - segnati dagli effetti regionali ideologici e politici della rivoluzione iraniana e dall'egemonia politica dell'islamismo politico - non lasciano più posto a queste elaborazioni.

In particolare, gli anni '90 segnano una rottura, e il tacito sistema che aveva visto allearsi «concordismo» e opposizione violenta si è poco a poco trasformato in una dinamica unitaria, in cui il «concordismo» è stato ancor di più favorito da un processo di alleanze tattiche tra queste differenti correnti. In effetti con la Guerra del Golfo, con i tentativi di regolare il conflitto israelo-palestinese attraverso la conferenza di Madrid e gli accordi di Oslo del 1993, con la fine del bipolarismo Est-Ovest e con la riunificazione dello Yemen, è un intero mondo che affonda. La fraseologia rivoluzionaria e nazionalista è sulla bocca di tutti, che sia islamica o marxista; cioè non è estraneo nemmeno all'abbandono progressivo del discorso messianico e terzomondista da parte del regime di Teheran, sotto l'impulso dei nuovo Presidente Rafsanjani.

Le coordinate politiche sono cambiate. Bisognerà determinare dove è avvenuto un triplo scacco: dell'islam politico, del nazionalismo arabo, della sinistra. Ma al di là di questo, è certo sulle macerie delle grandi utopie e delle mitologie multiple del secolo uscente che poco a poco va a ricostruirsi e ricomporsi il campo politico arabo. Le dinamiche in atto non sono più unilaterali: se negli anni '80 l'islamismo raccoglieva i frutti degli errori politici e sociali del mondo arabo, dal 1991 si assiste a una più grande interazione e a una più ampia trasversalità delle dinamiche politiche. Sinistra, nazionalismo e islamismo si trovano ormai in un complesso processo di rielaborazione ideologica e programmatica, di incroci di problematiche a fronte di un sentimento di sconfitta e impasse del mondo arabo.

Questo può essere constatato, in primo luogo, in Palestina: poco dopo gli accordi di Oslo, nell'ottobre 1993, si costituisce una «Alleanza delle forze palestinesi», composta di elementi che avevano rotto con al-Fatah, ma soprattutto da elementi dell'FPLP marxista e di Hamas [9]. Si creano poi dei progressivi quadri di discussione tra nazionalisti, marxisti e islamisti: la Fondazione Al-Quds, a leadership islamista, e soprattutto la Conferenza nazionalista e islamica, lanciata nel 1994 su iniziativa del Centro Studi per l'Unità Araba (CEUA) di Khair ad-Din Hassib, con base a Beirut, che si riunisce ogni quattro anni ed è destinata a trovare punti di accordo tattici e/o strategici e a ridefinire i legami, anche dal punto di vista ideologico, tra sinistra, nazionalismo e islamismo. La CEUA ha così tenuto a Beirut, nel marzo 2006, una Conferenza Generale araba di sostegno alla resistenza, in cui le principali direzioni di organizzazioni nazionaliste, di ispirazione marxista e islamiste (in particolare Hamas e Hezbollah) erano fortemente rappresentate.

Questione nazionale e questione democratica
Dal 2000, i ritmi di ricomposizione politica tra nazionalismo, sinistra radicale e islamo-nazionalismo sono accelerati: sulla spinta della Seconda Intifada e dell'intervento americano in Iraq, le convergenze tattiche tra di essi si sono accentuate. Queste ruotano principalmente intorno alla questione nazionale e alla questione delle «occupazioni», dalla Palestina all'Iraq passando per il Libano, e intorno alla denuncia congiunta delle politiche americane e israeliane.

È prima di tutto sul campo che si realizzano le alleanze, sul terreno pratico, non su quello teorico: al momento della «guerra dei trentatré giorni» tra Libano e Israele, durante il giugno e l'agosto del 2006, il Partito Comunista Libanese (PCL) ha riattivato alcuni dei suoi gruppi armati nel sud del Libano e nella piana di Baalbek, e ha combattuto militarmente al fianco di Hezbollah. In alcuni villaggi come Jamaliyeh, dove tre militanti sono morti a causa di un attacco di un commando di Israele respinto, è appunto il PCL che ha potuto prendere l’iniziativa militare e politica, anche se Hezbollah mantiene di fatto la leadership politica, militare e simbolica di questa guerra. Si è creato così un Fronte della Resistenza che raggruppa essenzialmente Hezbollah e la sinistra nazionalista, dal PCL al Movimento del Popolo di Najah Wakim [10], passando per la Terza Forza dell’ex Primo Ministro Selim Hoss; fondato sul principio del diritto alla resistenza e teso a difendere le principali rivendicazioni di Hezbollah – ovvero la liberazione dei prigionieri libanesi in Israele e la ritirata israeliana dai territori libanesi di Sheba'a e Kfar Shuba – questo fronte aveva come denominatore comune la questione nazionale e la posizione nei confronti di Israele: non era, per esempio, un fronte pro-siriano, poiché il Partito Comunista aveva da parte sua una lunga tradizione di lotta contro la tutela e la presenza siriana in Libano.

L’accordo tattico sulla questione nazionale non permette di parlare a priori di «ricomposizione politica». Il punto della questione è allora sapere se l’accordo tattico può trasformarsi in accordo più o meno strategico, e includere una visione a lungo termine della società, dello Stato, delle politiche economiche. È lì che la trasformazione del campo politico arabo sembra essere più profonda: dal 2000 al 2006, la serie di accordi politici tra sinistra, nazionalisti e islamisti si è poco a poco allargata ad un insieme di tematiche, cosa del tutto nuova in rapporto ai quadri di alleanze degli anni 1980 e 1990.

La questione nazionale permette quindi di effettuare una serie di passaggi concettuali, pratici e politici, da un campo all’altro: in Egitto, la denuncia delle politiche americane e israeliane nascondeva in effetti una critica latente ma esplicita del regime del presidente Mubarak. Rapidamente, i quadri di mobilitazione sulla questione palestinese e irachena hanno dato vita ad un’altra serie di quadri politici trasversali, toccando in particolare la questione democratica: da campagne di denuncia della legge d’emergenza del 1982 alle elezioni sindacali del novembre 2006, che hanno visto i Fratelli Musulmani, i radicali di sinistra del gruppo Kefaya e i nasseriani del movimento al-Kamarah allearsi per contestare il predominio delle liste del partito al potere (il Partito Nazionale Democratico), passando per le campagne di sostegno al movimento di protesta dei giudici egiziani che avevano denunciato la frode elettorale nel maggio del 2006, il campo d’azione e di alleanze è passato rapidamente dalla questione nazionale a quella dell’allargamento dei diritti democratici.

In Libano, il Movimento del Popolo, l’Organizzazione Popolare Nasseriana (sunnita, il cui dirigente, Osama Saad, è deputato di Saida) e il Congresso popolare arabo di Kamal Chatila (una formazione nasseriana) sono al cuore del movimento di protesta iniziato da Hezbollah e dalla Corrente Patriottica Libera del Generale Aoun nel dicembre 2006, movimento che ha trovato la sua voce nel quotidiano di sinistra al-Akhbar: qui, ancora, la mobilitazione dell’opposizione non tocca solo la questione nazionale e le «armi della resistenza». I tratti comuni tra le organizzazioni dell’opposizione al governo di Fouad Siniora riguardano tanto la questione della riforma della legge elettorale e del sistema confessionale, quanto quella della definizione di una politica economica di stato di tipo regolatore, o keynesiano, senza per questo rimettere in causa i meccanismi del mercato, tutte opzioni che non sono quelle della maggioranza parlamentare attuale, fortemente segnata dall’ultraliberismo [11]. Un buon esempio ne è il nuovo giornale al-Akhbar, quotidiano di sinistra assai vicino a Hezbollah, il cui primo numero è uscito nell’agosto del 2006 e che cerca di creare, di fatto, dei punti di congiunzione teorici e politici tra la sinistra, il nazionalismo e l’islam. Il PCL, che ha via via stabilito negli anni una sorta di partnership con Hezbollah, sostiene l’opposizione sulla questione della caduta del governo Siniora, considerato come pro-americano. Tuttavia, il PCL stesso non nasconde che la sua alleanza con Hezbollah e partiti dell’opposizione è un punto critico: per il PCL, il programma avanzato da Hezbollah non è ancora abbastanza radicale, sul piano sia politico che economico, da poter rimettere in discussione il sistema libanese, fondato sul confessionalismo politico. Pronto a fare fronte comune, non risparmia le sue critiche a Hezbollah, ma in maniera diversa rispetto agli anni ’80: ormai si tratta di definire una politica di sinistra indipendente che sia pronta a stabilire una complementarità e uno scambio costruttivo con il movimento islamico sciita.

La questione nazionale si gioca quindi oggi per estensione: quando negli anni ’90 le alleanze tra sinistra, nazionalisti e islamisti erano semplicemente fondate sul riconoscimento di un nemico comune – nel caso specifico Israele – la collaborazione sul lungo periodo tra queste correnti sfocia in definitiva in un allargamento del campo d’azione politica, che va dalla questione nazionale alla questione democratica, e dalla questione democratica alla questione dello Stato, delle istituzioni e delle forme sociali da adottare. Il «concordismo» e le mediazioni tra le organizzazioni e le correnti si sono poco a poco trasformati in una dinamica d’azione unitaria che, sebbene sia poco teorizzata e concettualmente elaborata, assume un’ampiezza evidente nella pratica politica quotidiana.

Questa ricomposizione politica non è indipendente dalle nuove dinamiche politiche mondiali in atto, con un movimento altermondialista consolidato nel paesaggio politico ma anche e soprattutto con l’apparizione di un polo nazionalista di sinistra in America Latina, rappresentato da Hugo Chavez ed Evo Morales. Un movimento islamo-nazionalista come Hezbollah elabora la sua rosa di alleanze secondo un modello terzomondista: Hassan Nasrallah non smette di fare riferimento al presidente venezuelano, mentre la sua organizzazione, insieme al Partito Comunista Libanese, ha invitato a Beirut, dal 16 al 20 novembre 2006, quasi 400 delegati della sinistra mondiale e del movimento altermondialista, nello scenario di una conferenza di solidarietà con la resistenza, e il cui comunicato finale fissava tre punti strategici: la questione nazionale e la lotta contro le occupazioni, la difesa dei diritti democratici e la protezione dei diritti sociali [12].

Queste dinamiche di ricomposizione politica in atto sono oggi sottovalutate: la questione libanese in genere non è percepita se non dal prisma siriano e iraniano, sottostimando le dinamiche interne proprie alla società politica libanese. La sfera d’azione islamica subisce essa stessa delle svolte programmatiche profonde: Hezbollah adotta un discorso terzomondista, fondato sull’opposizione sud-nord e Mustakbar (arroganti) [13]/musta’ adafin (oppressi); alcuni quadri dei Fratelli musulmani sono combattuti tra le alleanze con la sinistra e la difesa del principio dell’economia di mercato. Come scrive Olivier Roy, «il gioco di alleanze (degli islamisti) va in due direzioni possibili: da una parte, vi è una coalizione sui valori morali (…), e, dall’altra, un’alleanza su valori politici essenzialmente di sinistra (antiamericanismo, altermondialismo, diritti delle minoranze), in cui la linea di separazione è rappresentata chiaramente dalla questione della donna».

E proprio la questione femminile è oggi oggetto di dibattito: in Libano come in Palestina, le associazioni femministe nate dalla sinistra non esitano più a condurre campagne comuni con le associazioni delle donne islamiste, specialmente sulla questione del diritto al lavoro e della denuncia delle violenze sulle donne. Per Islah Jad, militante femminista palestinese e ricercatrice sul movimento delle donne in Palestina, non si tratta di opporre le donne laiche a quelle islamiche, ma di sviluppare un discorso femminista secolare e radicale, discutendo e lavorando insieme con i quadri femminili del movimento islamico: «Gli islamisti hanno ammesso che le donne erano perseguitate e vittime dell’oppressione sociale, mettendo la questione non sul piano della religione ma delle tradizioni che bisogna far evolvere. Secondo loro, l’Islam chiede che le donne si organizzino per liberare il paese, che vengano educate, organizzate e politicizzate, rese attive per lo sviluppo della loro società. Il paradosso è che il 27% dell’organizzazione del partito islamico è donna e il 15% è fa parte del “politburo”, più che nell’OLP (…). Come ho già detto, il fatto che le donne islamiche non cerchino di costruire il proprio discorso politico appoggiandosi ai testi religiosi offre alle donne laiche delle possibilità di influenzare la visione e i discorsi degli islamisti, e di evitare blocchi. Non possiamo reclamare i nostri diritti isolandoli dal contesto politico. È una tappa importantissima per stabilire una relazione di fiducia tra le tendenze laiche e islamiste. Il fatto che gli islamisti accettino di riconoscere l’oppressione delle donne apre delle prospettive sulle misure da prendere per far evolvere la società. Ci saranno sempre conflitti ideologici e politici, ed è auspicabile. Non si sarà mai totalmente d’accordo ma, secondo me, le donne laiche possono pesare nel dibattito ideologico con gli islamisti [15]».

Questa interazione pratica tra sinistra araba, nazionalismo e islamismo, seppur nuova e ormai realizzata tanto in campo sindacale quanto associativo, elettorale e militare, è ancora soltanto agli inizi. Dei punti d’accordo sulla questione nazionale, la democrazia o la difesa dei diritti sociali non costituiscono ancora un corpus abbastanza chiaro e stabile per sapere fino a che punto questa alleanza possa realmente unire. C’è un giusto scarto tra la teoria e la pratica: i «concordismi» sono stati approfonditi ma non c’è ancora stata, in campo intellettuale e teorico, una definizione chiara e l’elaborazione di un linguaggio comune. Le alleanze sono ancora per la maggior parte empiriche e pratiche, e mancano di assetto teorico e di un vero processo di omogeneizzazione. Ancora una volta, il Libano fa più o meno eccezione. Ultimamente esiste ancora una separazione tra gli spazi nazionali: l’alleanza più forte tra sinistra, nazionalisti e islamisti la si trova oggi proprio in Libano, nel tentativo di definire ciò che la sinistra e Hezbollah chiamano una «società di resistenza» e uno «Stato di resistenza». In Palestina, le alleanze tra FPLP e Hamas, per esempio, sono ben lontane dall’essere approfondite, poiché le due organizzazioni mantengono una certa diffidenza reciproca. In questo caso, la partnership FPLP/Jihad islamica è da parte sua pienamente stabilita. In Egitto persiste una certa diffidenza tra i Fratelli Musulmani e l’area di sinistra. Ora, la questione della ricomposizione politica e delle nuove alleanze in atto nel mondo arabo non è affatto secondaria: essa ridisegna in effetti il volto del nazionalismo panarabo e potrebbe infine costituire una temibile sfida strategica e internazionale per i regimi in vigore, come pure per gli Stati Uniti e le potenze europee. L’apertura del movimento islamo-nazionalista a sinistra può in effetti offrire ad un nuovo nazionalismo panarabo in mutazione una temibile apertura strategica e internazionale: può sfociare nella riemersione di un polo terzomondista e nazionalista su scala internazionale, come simbolicamente suggerisce una serie di manifesti rossi comparsi nelle strade di Beirut dopo il settembre del 2006, e che vede accostati i tre ritratti di Nasser, Nasrallah e Chavez. Non si tratta dunque si postulare l’emergere di un islamismo di sinistra, poiché non ce n’è uno. Si tratta piuttosto di comprendere che lo sviluppo di un islamismo aperto a sinistra e alle sue dimensioni nazionali cambia la situazione politica e mette in moto lunghi processi di ricomposizione politica, strategica e ideologica. Gli ultimi vent’anni hanno visto il referente politico islamista differenziarsi, con un islamismo fondamentalista deterritorializzato sul modello della rete di Al-Qaida, e la sottomissione di un neofondamentalismo islamico ai modelli del mercato, nonché l’apparizione di un islamismo governativo turco, più simile al modello consensuale della democrazia cristiana degli anni ’50 che a quello dell’Islam come modello di Stato. Ancora ai suoi inizi ma in via di sviluppo esponenziale, l’emergere di un polo islamico aperto tanto a sinistra quanto alle dimensioni nazionaliste e arabe costituisce un fenomeno politico che è in grado esso stesso di ricomporre in modo duraturo la scena politica mediorientale.

Note:
[1] al-Fatah, movimento nazionale per la liberazione della Palestina, è l’organizzazione storica del nazionalismo palestinese. L’FPLP (Fronte Popolare di Liberazione della Palestina) e l’FDLP (Fronte Democratico di Liberazione della Palestina) sono le due organizzazioni principali dell’estrema sinistra. Hamas – Movimento di resistenza islamica – è la prima organizzazione islamista, in termini di forze militanti. Il PPP (Partito Popolare Palestinese), infine, è l’ex Partito Comunista.

[2] Jamal Samhadana è poi stato giustiziato in un’operazione israeliana mirata, nel giugno del 2006.

[3] Alcune fonti libanesi accusano direttamente Hezbollah. Tuttavia, alcuni dirigenti del Partito Comunista oggi lasciano sussistere il dubbio, e non scartano la tesi di assassinio perpetrato da gruppi integralisti sunniti.

[4] Rabah Mhana, membro dell’Ufficio Politico del FPLP, conversazione con l’autore, Parigi, 2 maggio 2006

[5] Maxime RODINSON, «Rapport entre islam et communisme» (Il rapporto tra Islam e comunismo), Marxisme et monde musulman, Seuil, 1972, pp 167- 168

[6] Su questo argomento, cfr. Olivier CARRE, L’Utopie islamique dans l’orient arabe (L’utopia islamica nell’oriente arabo), Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, 1994.

[7] L’asse che si è comunemente chiamato «palestino-progressista» è costituito da organizzazioni della sinistra libanese (Partito Socialista Progressista, Organizzazione d’Azione Comunista del Libano) e dalle forze palestinesi in Libano (Fatah, FPLP, FDLP). Negli anni ’70, è principalmente quest’asse ad opporsi, nel quadro della guerra civile, alle milizie cristiane, le Falangi Libanesi.

[8] Saoud al Mawla, conversazione con l’autore, Quoreitem, Beiruth, 27 marzo 2007

[9] L’insieme di queste organizzazioni si unisce sul rifiuto incondizionato degli Accordi Provvisori di Oslo, firmati nel 1993 dal leader dell’OLP, Yasser Arafat.

[10] Il Movimento del Popolo è un’organizzazione nazionalista araba di sinistra. Il suo leader, Najah Wakim, ex deputato nasseriano di Beirut, è una personaggio politico nazionale, conosciuto in particolare per le sue campagne di lotta contro la corruzione.

[11] Il punto di vista dell’opposizione a proposito della riforma del sistema libanese sul modello di uno Stato «forte e giusto» può essere compreso soprattutto attraverso due documenti chiave: in primo luogo il documento d’intesa reciproca tra Hezbollah e la Corrente Patriottica Libera del 6 febbraio 2006, e in secondo luogo il documento comune prodotto dal Partito Comunista Libanese e la Corrente Patriottica Libera: “Come risolvere la crisi in Libano? I punti comuni tra il Partito comunista libanese (PCL) e la Corrente patriotica libera (CPL)”, 7 dicembre 2006.

[12] La seduta d’apertura della Conferenza, il 16 novembre 2006, al palazzo dell’UNESCO di Beirut, è stata simbolica di questa convergenza progressiva tra la sinistra mondiale e altermondialista e la sfera islamo-nazionalista: tra gli interventi d’apertura, vi erano in particolare Mohammad Salim (membro del Parlamento indiano e del Partito Comunista indiano), Gilberto Lopez (del Partito della Rivoluzione Democratica messicana), Victor Nzuzi (agricoltore e leader sindacalista congolese), Georges Ishaak (dirigente di Kifaya e militante della sinistra egiziana), Khaled Hadade (Segretario generale del Partito Comunista Libanese), ed infine Naim al-Quassem (Segretario generale aggiunto e numero due dell’Hezbollah libanese).

[13] L’opposizione Arroganti/Oppressi rinvia direttamente alla rivoluzione iraniana del 1979, così come al principio dottrinario dello sciismo. Nel vocabolario politico del primo periodo della rivoluzione del ’79, la coppia Arroganti/Oppressi stava a significare l’opposizione tra poveri e ricchi, ma anche tra il sud «colonizzato» e il nord «imperialista». Questa categorizzazione veniva adottata tanto dai Mullah vicini a Khomeini quanto dai gruppi di sinistra e nazionalisti.

[14] Olivier Roy, «Le passage à l’ouest de l’islamisme: rupture et continuité (Il passaggio a ovest dell’islamismo: rottura e continuità), Islamismes d’occident. Etat des lieux et perspectives, sous la direction de Samir Amghar, Lignes de repères, 2006.

[15] Islah Jad, conversazione con Monique Etienne, rivista Pour la Palestine, marzo 2005.


Originale: Un islamisme ouvert sur sa gauche: l’émergence d’un nouveau tiers-mondisme arabe?

Articolo originale pubblicato il 20/1/2009

L’autore

Loredana Miele è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

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martedì 10 febbraio 2009

sighit quale economia .....corsica

torra agoa<

- L'azione dello Stato, nonostante il calo significativo del numero di dipendenti amministrativi, non sarà carente. Favorendo la condivisione delle competenze tra Stato e comunità locali, creando organi di funzione pubblica polivalenti in settori con ampie interrelazioni, la produttività del servizio pubblico sarà notevolmente aumentata. D'altro canto la creazione di due blocchi di competenze, che includono ambiente, agricoltura, acqua, energia, trasporti, coesione sociale comprese cultura ed attività ricreative, alloggi, occupazione e servizi sociali, ottimizzerà l'uso dei fondi pubblici.

- Il bilancio dello Stato sarà l'espressione della finalità, deve tradurre il riassetto dell'azione pubblica, l'autonomia e la responsabilità degli attori politici, la protezione ed il benessere del cittadino in un sistema di diritti e doveri reciproci.

- Degli obiettivi ambiziosi. Bisogna raddoppiare la produzione agricola e le entrate legate al turismo in dieci anni. Valorizzare il lavoro, l'imprenditorialità, agevolandoli attraverso un'adeguata politica sociale e la riduzione di costi ed oneri amministrativi. Creare una fiscalità utile alla piccola impresa.

- Lavorare con il sistema bancario per la creazione di fondi d'investimento allettanti, garantiti dallo Stato.

- Liberare le energie, ritrovare lo spirito imprenditoriale ed il dinamismo dei nostri antenati all'inizio del ventesimo secolo.

- Tutelare e migliorare la nostra terra, aumentare le entrate per il suo impiego ed il suo impegno.
- Ripensare l'azione sociale, uscire dalla logica dell'aiuto caritatevole per l' "aiutu", espressione di vera e propria solidarietà.

Questa politica economica equilibrata tra la produzione della ricchezza e la sua redistribuzione, privilegiando la crescita attraverso l'aumento dell'offerta può persino far uscire la Corsica da questa economia mantenuta artificialmente con la pseudo-solidarietà francese. Oggi la Corsica con qualche adattamento del suo sistema fiscale può disimpegnare un'entrata di 1,5 miliardi di euro all'anno.

Si tratta di una somma rilevante, che rende relativa al nostro sguardo la "generosità" dello Stato Francese, e che può consentire uno slancio economico della Corsica slegato dalla sollecitudine dei Francesi, ma realizzato in maniera endogena con il concorso di tutti i Corsi che ci troveranno il loro beneficio.

Iscritu dae: Clément Filippi
tradutzioni dae Antonella Pacilio
imprentau dae U RIBOMBU

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sighit quale economia ....corsica

torra agoa

QUALI SONO I MEZZI DI QUESTA AZIONE ECONOMICA

Ci sono tre grandi orientamenti, ridurre il pubblico impiego, aumentare il capitale delle conoscenze, aumentare la produzione e quindi la ricchezza. L'occupazione nel settore pubblico, sappiamo le cause, rappresenta quasi il 45% dell'occupazione totale e probabilmente un po' di più, se si contano tutte le varie associazioni finanziate da fondi esclusivamente pubblici. Questo settore è molto allargato e crea poca ricchezza. Bisognerebbe quindi ridurre del 25 o 30% i posti di lavoro e riconvertirli verso settori produttivi, come la sanità, l'istruzione e la formazione, la giustizia e la sicurezza.

L'amministrazione dello Stato deve essere ridotta allo stretto necessario, evitando la duplicazione dei servizi, doppi uffici nelle comunità locali, favorendo la molteplice competenza dei suoi funzionari.
L'economia della conoscenza nel nostro paese senza industria, senza risorse del sottosuolo è una via del futuro. L'università deve per questo essere sviluppata, diventare l'attore principale della formazione professionale ed impegnarsi decisamente nella ricerca applicata.
La creazione di ricchezza immateriale, la conoscenza, lo sviluppo della ricerca sulle fonti rinnovabili di energia, nell'ambiente, nelle nuove tecnologie nell'agro-alimentare sarà una fonte di reddito non trascurabile.

Aumentare la produzione, ciò è possibile senza scartare le problematiche ambientali. L'agricoltura biologica, la pastorizia, la pesca e l'acquacoltura, possono aumentare rapidamente la loro produzione del 50%. La domanda di prodotti di qualità con forte contenuto identitario è costante.
Il turismo, senza gli eccessi della massa deve fruttare di più. Oggi un turista medio spende circa cinquanta euro al giorno per dormire, mangiare, spostarsi, divertirsi ed acquistare.
E' veramente molto poco e prova, se ce ne fosse ancora bisogno, che il miliardo di euro di fatturato annuo può essere aumentato del 50, anzi del 100%, favorendo l'emergere di una clientela più facoltosa attirata dalle nostre risorse naturali.

IL PROGETTO DI UN ECONOMIA

Qualche principio di base:
La Corsica è parte integrante dell'Unione Europea, aderisce alla Zona Euro e rispetta i criteri di stabilità. Un equilibrio di bilancio, un debito controllato. L'adesione all'Unione Europea come Stato sovrano permette la negoziazione delle norme di produzione, agricola in particolare.

- L'economia corsa è basata sulla libera impresa e l'economia di mercato, ma respinge gli eccessi del capitalismo selvaggio.
Uno degli obiettivi della politica economica è la solidarietà per la redistribuzione della ricchezza. Lo Stato aiuta le persone in stato di bisogno, protegge i più vulnerabili. In cambio questi debbono alla collettività un'attività: Lo scopo non è l'arricchimento di pochi, ma la partecipazione di tutti ad un lavoro comune di progresso e benessere materiale e sociale.
Azioni economiche di rapida attuazione. Ciò si traduce in una spinta attraverso una politica di grandi lavori strutturali, facendo appello ai fondi europei, per migliorare l'economia.
Questa politica dovrebbe rafforzare le imprese locali di ingegneria civile, creare rapidamente posti di lavoro ed iniettare capitali nel sistema economico locale.

- Massicci investimenti in sviluppo della ricerca e formazione. Ripensare le produzioni per rafforzare la loro specificità ed utilizzare il vantaggio comparativo del marchio Corso, che unisce identità del processo di produzione, garanzia di qualità ambientale e di origine della materia prima, ad un alto contenuto culturale. Il completo cambiamento dei canali commerciali per aprirsi verso il Mediterraneo.

La Corsica deve inscriversi in particolare nell'asse Toscana-Sardegna e al di là dell'Africa del Nord. Questo asse Nord-Sud agevolerà le nostre esportazioni, diversificherà le nostre fonti di approvvigionamento, in particolare energetiche, e ridurrà i nostri costi d'importazioni. Le infrastrutture necessarie saranno in gran parte finanziate da Bruxelles nel quadro d' INTERREG.
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giovedì 5 febbraio 2009

sighit ORTEGA Y GASSET

Ecco perché, nel saggio "Le Atlantidi" (1924) Ortega y Gasset arriva alla conclusione che nessuna cultura, neppure quella europea, ha il diritto di pretendere di avere un'egemonia sulle altre; ogni cultura è uno specchio della verità. Soprattutto durante gli anni Venti e Trenta, il filosofo spagnolo elabora - sulla base della circostanzialità della vita - un'antropologia volta ad evitare riduzionismi (sia naturalistici, sia spiritualistici): l'uomo è un animale fantastico, del tutto diverso da ogni altro, poiché è il solo a non potersi mai definitivamente adattare al mondo circostante; in virtù del suo potere immaginativo, l'uomo duplica la realtà, creando un mondo interno e suo. Certo, l'uomo è anche un animale "tecnologico", che si serve delle innovazioni tecnologiche per piegare la circostanza, aggredendo il mondo, ma si tratta di vittorie fragili e di breve durata, che in definitiva vedono l'uomo sempre come perdente. E' durante gli anni '30 che Ortega intensifica il suo rapporto con la filosofia di Heidegger, protagonista indiscusso di quegli anni: ne scaturisce la ferma convinzione che la filosofia debba affrontare il problema dell'essere, scavalcando l'alternativa tra idealismo e realismo (l'essere non è né le cose esistenti in sé, né le cose pensate). L'essere dev'essere secondo Ortega cercato nella datità della vita, cioè nella "pura coesistenza di un io con le cose, delle cose dinanzi all'io" ("Algunas lecciones de metafisica"). All'ontologia spetta quindi il compito di individuare le categorie costitutive della vita: vivere è - heideggerianamente - "trovarsi nel mondo" a patire e insieme ad agire le cose in una mutua relazione, nella condizione di poter progettare se stessi in un margine di libertà; allora, se la vita è "un fa farsi", l'essere non è un qualcosa di già costituito, e che né le cose né l'uomo hanno per sé l'essere, il quale è, pertanto, "ciò che manca alla nostra vita, l'enorme buco o vuoto della nostra vita" ("Algunas lecciones de metafisica"). Ma - distaccandosi in questo da Heidegger - la domanda metafisica intorno all'essere non è originaria e costitutiva dell'esistenza: anzi, la filosofia come ricerca dell'essere inerisce sempre a una determinata situazione storico-culturale, e dunque non è detto che sia perenne. Con queste considerazioni sullo sfondo, Ortega, nella maturità del suo pensiero, approda allo storicismo: la ragione vitale diventa ragione storica. Gli scritti che documentano questa nuova stagione della riflessione orteghiana sono soprattutto "Intorno a Galileo" (1933), "Storia come sistema" (1935) e "La ragione storica" (1940): in esplicito contrasto con la tesi hegeliana della razionalità salvifica della storia, Ortega afferma con Dilthey che è la ragione stessa ad essere storica (e non la storia ad essere razionale), in quanto intrinseca alla vita dell'uomo (che, come abbiam detto, è un "da farsi"). Ma con questo Ortega non vuol ridurre la storia ad una mera sequenzialità caotica di eventi: in sintonia con Heidegger, sostiene la storicità dell'uomo e, come conseguenza, la necessità di porre un nucleo a priori, una sorta di ontologia della realtà storica ("istoriologia" la chiama Ortega), il cui ufficio è di dare la teoria della struttura essenziale della vita storica. In quest'ottica, il sapere storico si edificherà attraverso ipotesi che permettano di connettere quel nucleo a priori con i fatti empirici: per la conoscenza storica, in definitiva, è bene adottare lo stesso procedimento ipotetico-deduttivo adottato da Galileo per costruire la scienza della natura. In opposizione a Dilthey, Ortega respinge la distinzione tra spiegare e comprendere, sostenendo che la comprensione della vita umana debba sempre far in qualche modo riferimento a spiegazioni causali. Ne "La ribellione delle masse" (1930), che fu salutato dai contemporanei come un testo destinato ad avere il successo de "Il capitale" di Marx o de "Il contratto sociale" di Rousseau, Ortega prende in esame la crisi culturale e spirituale che travaglia l'Europa a lui contemporanea, ravvisandone l'origine nell' "avvento delle masse al pieno potere sociale". Ciò è il segno del venir meno della funzione della cultura, minacciata dalla massificazione dei valori e dei comportamenti: "la massa travolge tutto ciò che è diverso, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia 'come tutto il mondo', chi non pensi come 'tutto il mondo' corre il rischio di essere eliminato". L'uomo-massa, non identificabile con una particolare classe sociale, è l'uomo medio, senza qualità, soddisfatto di essere quel che è, non intenzionato a migliorare perché si considera già perfetto. La sua 'cultura' è fatta di "luoghi comuni, di pregiudizi, di parvenze di idee, o semplicemente di vocaboli vacui che il caso ha ammucchiato nella sua coscienza". Insomma, essa non è che barbarie: l'unico desiderio che ha l'uomo-massa è di soppiantare gli uomini a lui superiori; ed è così che, appunto, nasce la ribellione delle masse, l'azione diretta e la violenza come prima ratio, quando in una civiltà fondata sulla volontà di convivenza, sulla democrazia liberale, non potrebbero che essere l' ultima ratio.

torra sa defenza

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L’opposizione si presenta invece ancora divisa e per il ritorno ad un’era riformista diventa determinante il ruolo della nuova amministrazione americana: tra i candidati ci sono nomi quali Mehdi Karroubi, leader del partito Etemad Melli; Mohammad-Reza Aref, ex vice presidente del secondo mandato Khatami; Hossein ‎Kamali, capo del Hezbe Islami-e Kar (Partito Islamico del Lavoro); l'ex primo ministro Mir Hossein Mousavi, candidato del partito Mardomsalari, e Hassan Rowhani, sostenuto dall’ala moderata del partito Kargozaran. Non è poi ancora esclusa la partecipazione dell'ex presidente riformista Mohammad Reza Khatami, appoggiato da gran parte del mondo intellettuale e dalla gioventù studentesca.

Sono molte le ragioni per le quali Barack Obama è interessato al futuro dell’Iran: per l’importanza strategica, sia politica che militare; per la questione sul supporto che Teheran offre ai gruppi terroristici, fatto direttamente legato all’influenza shiita in Iraq, Afghanistan e nel vicino Medio Oriente; per il programma nucleare, problema che la Casa Bianca vorrebbe risolvere senza arrivare al muro contro muro e che rimane al centro dell’agenda del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Sono in molti a credere che comunque il presidente Usa, sperando nell’elezione di una figura più moderata, voglia guadagnare tempo e scoprire le carte dopo il 12 giugno. A questo punto sta ad Ahmadinejad dimostrarsi più moderato, perché il 12 giugno si vince solo se si parla il linguaggio del dialogo e, con Khatami, i riformisti hanno dimostrato di saperlo fare.

http://sadefenza.blogspot.com/

mercoledì 4 febbraio 2009

sghit Come gli Stati Uniti............................

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Finanziare la 'democrazia' stile USA

"Molto di ciò che facciamo oggi veniva fatto clandestinamente 25 anni fa dalla CIA", ha detto Allen Weinstein, uno dei fondatori del National Endowment for Democracy in un articolo pubblicato nel 1991 dal Washington Post.

Creato all'inizio degli anni Ottanta, il NED è "governato da un consiglio indipendente, non schierato politicamente". Il suo obiettivo dichiarato è offrire appoggio a organizzazioni filo-democratiche in tutto il mondo. Storicamente, però, la sua agenda è definita dagli obiettivi della politica estera statunitense.

"Quando si mette da parte la retorica della democrazia, il NED è uno strumento specializzato per penetrare nella società civile di altri paesi" per conseguire obiettivi della politica estera statunitense, scrive William Robinson, professore dell'Università di California-Santa Barbara, nel suo libro A Faustian Bargain. Robinson si trovava in Nicaragua alla fine degli anni Ottanta e vide come il NED collaborò con l'opposizione nicaraguense appoggiata dagli Stati Uniti per deporre i sandinisti durante le elezioni del 1990.

Il NED è stato anche pubblicamente accusato in Venezuela di avere finanziato il movimento anti-Chávez. Nel suo libro The Chávez Code, l'avvocatessa venezuelano-americana Eva Golinger scrive che i beneficiari del NED (e dell'USAID) sono stati coinvolti nel tentativo di colpo di stato del 2002 contro il Presidente venezuelano Hugo Chávez, e negli "scioperi dei lavoratori" contro l'industria petrolifera del paese. Golinger osserva poi che il NED ha finanziato anche la Súmate, una ONG venezuelana – il cui obiettivo dichiarato è promuovere il libero esercizio dei diritti politici dei cittadini – che orchestrò il fallito referendum revocatorio contro Chávez del 2004.

Dipendenza e sudditanza

Il concetto di separazione dei poteri tra la stampa e il governo è un assunto fondamentale non solo del sistema politico statunitense: è anche sancito dall'Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. I finanziamenti alla stampa erogati dal governo degli Stati Uniti rischiano di instaurare un rapporto beneficiato-benefattore che impedisce di considerare indipendente un mezzo di informazione.

"Perfino la donazione da parte del governo degli Stati Uniti di apparecchiature come computer e sistemi di registrazione influisce sul lavoro dei giornalisti e delle organizzazioni giornalistiche", dice Contreras, il giornalista boliviano, "perché crea dipendenza e sudditanza nei confronti degli obiettivi nascosti delle istituzioni statunitensi".




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Originale da: In These Times

Articolo originale pubblicato il 4 giugno 2008

L’autore

Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguística

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sighit Come gli Stati Uniti ti finanziano la stampa

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USAID: 'da parte del popolo americano'

Il Presidente John F. Kennedy creò l'Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (U.S. Agency for International Development, USAID) nel novembre del 1961 per gestire l'aiuto umanitario e lo sviluppo economico in tutto il mondo. Ma mentre l'USAID si vanta di promuovere la trasparenza negli affari degli altri paesi, è in sé ben poco trasparente. Questo vale soprattutto per i suoi programmi di sviluppo dei media.

"In molti paesi, compresi il Venezuela e la Bolivia, l'USAID sta operando più come un'agenzia impegnata in azioni clandestine, come la CIA, che come un'agenzia di assistenza o sviluppo", commenta Mark Weisbrot, economista presso il Centro di Ricerca Politica ed Economica (Center for Economic and Policy Research), un think tank con sede a Washington, D.C..

Infatti, se grazie al Freedom of Information Act gli inquirenti sono riusciti a ottenere i bilanci dei programmi globali dell'USAID, come pure i nomi dei paesi o delle regioni geografiche in cui sono stati spesi i soldi, i nomi delle specifiche organizzazioni straniere che hanno ricevuto quei soldi sono segreto di stato, esattamente come nel caso della CIA. E nei casi in cui si conoscono i nomi delle organizzazioni e si richiedono informazioni su di esse, l'USAID risponde che non può "né confermare né smentire l'esistenza di questi fatti", utilizzando lo stesso linguaggio della CIA. (Rivelazione: Nel 2006, ho perso una causa contro l'USAID nel tentativo di identificare quali organizzazioni straniere finanzia).

L'USAID finanzia tre importanti progetti di sviluppo dei media: l'International Research & Exchanges Board (meglio noto come IREX), l'Internews Network e il Search for Common Ground, che in buona parte beneficia di finanziamenti privati. Per complicare le cose, tutti e tre hanno ricevuto finanziamenti anche dal Dipartimento di Stato, dalla Middle East Partnership Initiative (MEPI), dall'Ufficio di Intelligence e Ricerca (Bureau of Intelligence and Research, INR) e dall'Ufficio per la Democrazia, i Diritti Umani e il Lavoro .

Secondo i pieghevoli che ne illustrano l'attività, l'IREX è un'organizzazione internazionale non profit che "lavora con partner locali per promuovere la professionalità e la sostenibilità economica a lungo termine dei giornali, delle radio, delle televisioni e dei mezzi di informazione su internet". La dichiarazione dei redditi "990" presentata dall'IREX relativamente all'anno fiscale 2006 afferma che le sue attività comprendono "piccole borse di studio per più di 100 giornalisti e organizzazioni di mezzi di informazione; attività di formazione per centinaia di giornalisti e organi di stampa" e dichiara di avere più di 400 dipendenti che offrono programmi e consulenza a più di 50 paesi.

La rete Internews Network, meglio conosciuta come "Internews", riceve solo circa la metà dei fondi dell'IREX ma è la più nota. È stata fondata nel 1982 e la maggior parte dei suoi finanziamenti passa attraverso l'USAID, anche se ne riceve anche dal NED e dal Dipartimento di Stato. Internews è una delle maggiori operazioni nel settore dello sviluppo dei media "indipendenti": finanzia decine di ONG, giornalisti, associazioni di giornalisti, istituti di formazione e facoltà di giornalismo in decine di paesi di tutto il mondo.

Le operazioni di Internews sono state bloccate in paesi come la Bielorussia, la Russia e l'Uzbekistan, dove sono state accusate di minare i governi locali e di promuovere gli obiettivi statunitensi. In un discorso tenuto nel maggio del 2003 a Washington, D.C., Andrew Natsios, ex-amministratore dell'USAID, ha definito gli intermediari privati finanziati dall'USAID "un braccio del governo degli Stati Uniti".

Nel caso dell'altro principale beneficiario dell'USAID nel settore dello sviluppo dei media, Search for Common Ground, sono più i soldi che riceve dal settore privato che quelli che riceve dal governo degli Stati Uniti, la maggior parte dei quali secondo il rapporto del CIMA va in "risoluzione dei conflitti".

Due bersagli importanti per l'attività di assistenza e sviluppo dei media dell'USAID sono rappresentati da Cuba e l'Iran. Il budget dell'USAID per la "Libertà dei media e la Libertà di Informazione" (Media Freedom and Freedom of Information ) – per la "transizione" di Cuba concepita dalla Commissione per l'Assistenza a una Cuba Libera II (Commission for Assistance to a Free Cuba II, CAFC II) – ammonta a 14 milioni di dollari. Si tratta di un aumento di 10,5 milioni di dollari rispetto la somma stanziata nel 2006. In Iran l'USAID ha stanziato qualcosa come 25 milioni di dollari per lo sviluppo dei media nell'anno fiscale 2008: fanno parte di un pacchetto di 75 milioni di dollari per quella che l'USAID chiama "diplomazia trasformazionale" in quel paese.

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sighit Come gli Stati Uniti finanziano gli organi di stampa.....

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Qui BBG

Il Consiglio Superiore per la Comunicazione Audiovisiva (Broadcasting Board of Governors, BBG) è meglio conosciuto come il fondatore di Voice of America. Secondo il suo sito internet, il BBG è "responsabile di tutte le trasmissioni internazionali, non militari, finanziate dal governo degli Stati Uniti" che portano "notiziari e informazioni alla gente di tutto il mondo in 60 lingue".

Nel 1999 il BBG è diventato un'agenzia federale indipendente. Nel 2006 ha ricevuto un budget di 650 milioni di dollari, secondo stime del CIMA, con circa 1,5 milioni destinati alla formazione di giornalisti in Argentina, Bolivia, Kenya, Mozambico, Nigeria e Pakistan.

Oltre a Voice of America, il BBG gestisce anche altre stazioni radiofoniche e televisive. Il canale televisivo Alhurra, con sede a Springfield, Virginia, nel suo sito internet si descrive come "una rete satellitare in lingua araba per il Medio Oriente priva di pubblicità e dedicata soprattutto all'informazione". Alhurra, che in arabo significa "la libera", è stata descritta dal Washington Post come "il maggiore e più costoso impegno degli Stati Uniti per scuotere l'opinione pubblica attraverso le onde radio dalla fondazione di Voice of America nel 1942".

Il BBG finanzia anche Radio Sawa (diretta alla gioventù araba, programmazione in Egitto, Golfo, Iraq, Libano, Levante, Marocco e Sudan), Radio Farda (in Iran) e Radio Free Asia (programmazione regionale in Asia). BBG finanzia anche trasmissioni a Cuba attraverso la Radio-TV Martí, con una spesa che quest'anno ammonterà a quasi 39 milioni di dollari secondo il Bilancio del Congresso per le Operazioni all'Estero (Foreign Operations Congressional Budget Justification) per l'anno fiscale 2008.

Le pubbliche relazioni del Pentagono

Il Dipartimento della Difesa (DOD) si è rifiutato di rispondere a In These Times circa i suoi programmi di sviluppo dei media. Secondo un articolo di Jeff Gerth pubblicato sul New York Times l'11 dicembre 2005, "i militari gestiscono stazioni radio e giornali [in Iraq e Afghanistan] ma senza rivelare i legami con gli Stati Uniti".

Il ruolo dello sviluppo dei media in Iraq "è stato affidato al Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, i cui maggiori contractor avevano scarsa o nessuna esperienza", afferma un rapporto dell'ottobre 2007 dell'Istituto per la Pace (USIP).

Uno studio del 2007 del Centro per gli Studi sulla Comunicazione Globale dell'Istituto Annenberg per la Comunicazione dell'Università della Pennsylvania (Center for Global Communication Studies at the University of Pennsylvania's Annenberg School for Communication) ha scoperto che la Science Applications International Corp. (SAIC), contractor di lunga data del DOD, aveva ottenuto un contratto iniziale di 80 milioni di dollari per un anno per trasformare un sistema interamente gestito dallo stato in un servizio "indipendente" sullo stile della BBC, parzialmente per contrastare l'effetto di Al Jazeera nella regione.

"La SAIC era un ufficio del DOD specializzato in operazioni di guerriglia psicologica, che secondo alcuni contribuì alla percezione tra gli iracheni che l'Iraq Media Network (IMN) fosse semplicemente un'appendice dell'Autorità Provvisoria della Coalizione (Coalition Provisional Authority)", dice il rapporto dell'USIP. "Il lavoro della SAIC in Iraq fu considerato costoso, non professionale e fallimentare ai fini di stabilire l'obiettività e l'indipendenza dell'IMN". La SAIC ha poi perso il contratto, passato a un'altra compagnia: l'Harris Corp.

La SAIC non è stato l'unico contractor del Pentagono nel settore dei media ad avere ampiamente fallito. In un articolo di Peter Eisler pubblicato il 30 aprile su USA Today, il sito di informazione iracheno Mawtani.com è stato smascherato come canale televisivo al soldo del Pentagono.

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sighit Come gli Stati Uniti finanziano gli organi di stampa

torra agoa<<

Una storia tortuosa Il finanziamento dei mezzi di informazione stranieri da parte del governo degli Stati Uniti ha una lunga storia. Alla metà degli anni Settanta, all'indomani del Watergate, due inchieste del Congresso – le commissioni Church e Pike del senatore Frank Church (D-Idaho) e del rappresentante Otis Pike (D-N.Y.) – scavarono nelle attività clandestine del governo degli Stati Uniti in altri paesi. Confermarono così che oltre ai giornalisti (sia stranieri che americani) finanziati dalla CIA, gli Stati Uniti pagavano anche organi di informazione stranieri (stampati, radiofonici e televisivi) – cosa che stavano facendo anche i sovietici. Per esempio, Encounter, una rivista letteraria anti-comunista pubblicata in Inghilterrra dal 1953 al 1990, nel 1967 si rivelò un'operazione della CIA. E, come succede oggi, anche organizzazioni dal nome inoffensivo come il Congresso per la Libertà Culturale (Congress for Cultural Freedom) sono state attività di facciata della CIA. Le inchieste del Congresso scoprirono che il finanziamento statunitense dei media stranieri giocava spesso un ruolo decisivo all'estero, ma mai come nel Cile dei primi anni Settanta. "La maggiore operazione di propaganda della CIA, attraverso il giornale d'opposizione El Mercurio, probabilmente contribuì nel modo più diretto al sanguinoso rovesciamento del governo Allende e della democrazia cilena", dice Peter Kornbluh, analista del National Security Archive, un istituto di ricerca indipendente non governativo. In These Times ha chiesto all'agenzia se continua a finanziare giornalisti stranieri. Il portavoce della CIA Paul Gimigliano ha risposto: "La CIA normalmente non conferma né smentisce questo genere di affermazioni". Nemici del Dipartimento di Stato? Il 19 agosto 2002 l'ambasciata statunitense a Caracas, in Venezuela, mandò a Washington una comunicazione. Vi si leggeva: "Ci aspettiamo che la partecipazione del signor Lacayo al 'Grant IV' si rifletta direttamente nei suoi servizi su argomenti politici e internazionali. Con i suoi avanzamenti di carriera, i nostri buoni rapporti con lui ci permetteranno di avere un amico potenzialmente importante in una posizione di influenza editoriale". [Nota del curatore: il nome di Lacayo è stato cambiato per proteggerne l'identità]. Il Dipartimento di Stato aveva scelto il giornalista venezuelano per una visita negli Stati Uniti nell'ambito del cosiddetto Grant IV, un programma di scambio culturale avviato nel 1961. Lo scorso anno il dipartimento ha portato negli Stati Uniti qualcosa come 467 giornalisti al costo di circa 10 milioni di dollari, secondo un funzionario del Dipartimento di Stato che ha chiesto di restare anonimo. MacDonald del FAIR dice che "le visite servono a stringere legami tra i giornalisti stranieri in visita e le istituzioni che... sono estremamente acritiche nei confronti della politica estera statunitense e degli interessi corporativi cui ubbidisce". Il Dipartimento di Stato finanzia lo sviluppo dei media attraverso diversi organi, compreso l'Ufficio degli Affari Educativi e Culturali (Bureau of Educational and Cultural Affairs), l'Ufficio di Intelligence e Ricerca (Bureau of Intelligence and Research, INR) e l'Ufficio per la Democrazia, i Diritti Umani e il Lavoro (Bureau of Democracy, Human Rights, and Labor, DRL), oltre che attraverso ambasciate e uffici regionali in tutto il mondo. Finanzia giornalisti stranieri anche tramite un'altra sezione chiamata Ufficio per la Diplomazia e gli Affari Pubblici (Office of Public Diplomacy and Public Affairs). Ma soprattutto il Dipartimento di Stato solitamente decide dove le altre agenzie, come USAID e NED, debbano investire i loro fondi per lo sviluppo dei media. (Il Dipartimento di Stato non ha risposto alla richiesta di informazioni di In These Times circa il suo bilancio per lo sviluppo dei media, ma lo studio del 2007 del CIMA mostra che nel 2006 il DRL ha ricevuto quasi 12 milioni di dollari solo per lo sviluppo dei media). Il caso della Bolivia è un esempio rivelatore di paese in cui gli Stati Uniti hanno finanziato lo sviluppo dei media. Secondo il sito internet del DRL, nel 2006 questo ufficio finanziò in Bolivia 15 seminari sulla libertà di stampa e di espressione. "I giornalisti e gli studenti di giornalismo di questo paese hanno discusso di etica professionale, di buone pratiche di diffusione delle notizie e del ruolo dei media in una democrazia", dice il sito. "Questi programmi sono stati inviati a 200 stazioni radiofoniche nelle regioni più remote del paese". Nel 2006 la Bolivia ha eletto Evo Morales, il suo primo presidente indigeno, la cui ascesa al potere è stata ripetutamente ostacolata dal governo degli Stati Uniti e dalla stampa a grande diffusione. Secondo Morales e i suoi sostenitori il governo degli Stati Uniti sta offrendo sostegno a un movimento separatista nelle province orientali ricche di petrolio; quel sostegno si tradurrebbe in riunioni sullo sviluppo dei media, secondo il giornalista ed ex-portavoce presidenziale Alex Contreras. Koscak dell'USAID respinge queste accuse.

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sighit Berlusconi ha l'ossessione di Soru

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Non a torto, probabilmente. La settimana scorsa aveva dovuto fronteggiare il “mucchio selvaggio” dei ministri compradores scatenati ad annunciare i loro miracoli ai sardi presunti beoti e creduloni. Con la gustosa soddisfazione, stimolata anche da questo giornale ripreso a livello nazionale, di vedere il leghista Zaia costretto a usare i taxi dopo la dura denuncia di Mannoni, che gli aveva negato le autoblu chieste con piglio da padrone in trasferta nella colonia sarda. Ora è tornato in campo, Berlusconi ma non trasmette affatto un senso di forza e sicurezza. Solo tracotanza e paura, comunque mai autorevolezza. Perché è chiaro a tutti che per lui Renato Soru è diventato un'ossessione, l'incarnazione di una paura manifesta: quella della sconfitta alle urne. Lui stesso ha voluto trasformarle nella resa dei conti contro l'unico personaggio che gli ha sempre tenuto testa, ha ribattuto colpo su colpo, non ha mai chinato la testa né quando i sostenitori del Cavaliere gli hanno assaltato la casa, né quando lui stesso è andato fare il comizio trenta metri sotto, con eccezionale fair play. Soru si spiega benissimo contro il premier ma non si piega. E a quanto pare non si stanno piegando, davanti a quest'offensiva becera e senza precedenti, neanche gli elettori sardi.

Sono i sondaggi che dicono male a far infuriare Berlusconi: indignato che non si faccia la sua volontà elettorale. Incredulo, ossessionato e quasi invidioso, che la stampa nazionale esalti o comunque presti grande attenzione e rispetto a Soru. Nel suo delirio di onnipotenza, non può esistere alcuno che non venga spazzato via se lui lo chiede e lo persegue in prima persona. Come i giocatori al casinò, alza al massimo il rilancio perché sente di non controllare la partita, per ribaltarne l'andamento. Appunto, l'ossessione della sconfitta e dell'uomo che potrebbe incarnarla, sia pure con mezzi così clamorosamente impari rispetto al'avversario.

Dev'essere ben inquieto, il Cavaliere. Reso più preoccupato, oltrechè dai sondaggi, da autorevoli pareri. In un'intervista a 'Il Riformistà, Francesco Cossiga ha pronosticato nei giorni scorsi la vittoria di Renato Soru: “Non so se diventerà leader nazionale del Pd, però non ho dubbi che prevarrà su Cappellacci”. Soru, ha spiegato il presidente emerito della Repubblica, “sa parlare al sardo”, mentre lo sfidante del Pdl “rischia di essere preso per la proiezione di una figura esterna all'isola, cioè Berlusconi”. Tanto che il senatore a vita dà un consiglio al premier: “Gli suggerirei di diradare le sue visite sull'isola. La Sardegna -rimarca Cossiga- non è l'Abruzzo e nemmeno il Veneto”.

Forse il Cavaliere ha cominciato a capirlo e rilancia, rilancia gli attacchi a Soru: “incantatore di serpenti”. A proposito, chi sono gli incantati e come mai si fanno sedurre da un “fallito”? I sardi, forse lui stesso, tanti italiani che vedono il leader nazionale emergente nel protagonista sardo della sfida a Berlusconi? Ormai la partita è a due, Cappellacci davvero dovrebbe mettersi da parte e aspettare l'esito, chiamandosi fuori come di fatto è. Vedremo se Berlusconi tornerà in Sardegna e in quali numeri si produrrà dopo gli ennesimi insulti, benché davanti ai quali la destra sarda e il suo finto candidato tacciono: non disturbate il manovratore, anche temendo che stia facendo deragliare il tram con le sue sparate-boomerang. Berlusconi non ha mai detto una sola parola contro Bassolino, che pure qualche giudizio pesante e motivato l'avrebbe meritato. Viceversa, parla e straparla, siamo alla persecuzione vera e propria, solo di Soru: la sua ossessione, l'oggetto di una paura che monta e si manifesta così puerilmente. Gli ha scatenato contro lo Stato e il governo, contando anche sui vescovi sardi che hanno fatto dei loro altari un vergognoso tempio per le sue omelie elettorale. Se con tutto questo i sondaggi continuano a dirgli male e comunque a non garantirgli la vittoria, fa bene il Cavaliere a essere preoccupato: è già una sconfitta bruciante, quasi umiliante, a prescindere da quel che diranno le urne.

http://www.altravoce.net/

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martedì 3 febbraio 2009

sighit....Cecchini che prendono di mira dei bambini

torra agoa<

L´esercito ha indagato solo su 90 decessi palestinesi, come al solito sotto pressioni esterne. Sono stati condannati sette soldati : tre per omicidio involontario, nessuno per assassinio. Il mese scorso, un tribunale militare ha condannato un soldato a 20 mesi di prigione per aver abbattuto un palestinese che aggiustava la sua antenna televisiva, la pena più lunga per la morte, di un civile, meno di quanto ricevono gli obiettori di coscienza israeliani rifiutandi di servire nell’esercito. B´Tselem sostiene che la mancanza di responsabilità e di regole d’ingaggio che “incoraggiano tra i soldati un atteggiamento da grilletto facile” hanno creato una “cultura dell’impunità” – opinione sostenuta dal gruppo dei Dirittio dell’Uomo con sede a New York, Human Rights Watch, che la scorsa settimana ha definito numerose indagini per morti di civili “un’impostura ... che incoraggia i soldati a pensare di poterla frare franca per un omicidio". Nel sud di Gaza, gli omicidi avvengono in un clima che si riassume in una forma di terrore contro la popolazione. Il tiro aleatorio a Rafah e Khan Yunis ha preso centinaia di vite, tra cui cinque bambini abbattuti mentre erano seduti nelle loro aule di scuola. Molti altri sono morti presi volutamente di mira dai cecchini – bambini che giocavano a calcio, seduti fuori di casa o di ritorno da scuola. Quasi sempre le "indagini" si sono risolte nel chiedere al soldato che ha tirato il grilletto che cosa è successo – spesso affermano che vi è stato uno scambio di colpi, mentre non ce n’è stato nessuno – e presentandolo come un fatto. La polizia militare ha lanciato lo scorso ottobre un’inchiesta sulla morte di Iman al-Hams solo dopo che i soldati avevano reso pubbliche le circostanze in cui il loro comandante aveva scaricato la sua arma sulla ragazzina di 12 anni. È stato registrato mentre duceva ai suoi uomini che la giovane avrebbe dovuto essere uccisa anche se avesse avuto tre anni. Il colonnello Pinhas Zuaretz era comandante nel sud di Gaza due anni fa, quando l’ho interpellato sul numero di omicidi. Il colonnello, che ha riscritto le regole d’ingaggio per permettere ai soldati di sparare su ragazzini di 14 anni, ha riconosciuto che le versioni ufficiali di numerosi assassinii erano false, ma ha giustificato la strategia come un prezzo per sopravivere contro un secondo Olocausto. Forse questa opinione era condivisa dal soldato che in aprile ha abbattuto tre ragazzi di 15 anni, Hassan Abu Zeid, Ashraf Mousa e Khaled Ghanem, per essersi avvicinati alla frontiera fortificata tra Gaza e l’Egitto. I militari hanno detto che gli adolescenti erano dei contrabbandieri di armi e dunque dei “terroristi”, che il soldato aveva loro sparato alle gambe e che li aveva uccisi solo perché non si erano fermati. Il rapporto era una falsificazione. Gli adolescenti erano in "una zona proibita" ma giocavano a pallone. I loro cadaveri non mostravano alcuna ferita provocatta per neutralizzarli, ma solo spari grosso calibro alla testa o alla schiena. L´esercito lo ha ammesso tranquillamente - ma ha dichiarato che non ci sarà nessuna inchiesta.

Articolo in francese: http://www.ism-france.org/
Articolo in inglese: http://www.guardian.co.uk/

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lunedì 2 febbraio 2009

sighit ii La Russia agli Stati Uniti sulla rotta verso l'Afghanistan

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Nuova Delhi ha accolto con favore l'opportunità di svolgere un ruolo più importante come membro osservatore della SCO e intende “partecipare maggiormente” alle attività dell'organizzazione. In particolare, Nuova Delhi ha “espresso interesse a prendere parte alle attività” del gruppo di contatto della SCO sull'Afghanistan.

La grande domanda ora è: Karzai coglierà queste tendenze regionali e risponderà all'apertura della SCO, liberando Kabul dalla morsa di Washington? Di certo Washington è in corsa contro il tempo per produrre un “cambiamento di regime” a Kabul.

Il fatto è che un numero sempre maggiore di paesi della regione trovano difficile accettare il monopolio statunitense sulla risoluzione del conflitto in Afghanistan. Washington faticherà a dissociarsi dalla conferenza della SCO prevista a marzo e avrebbe idealmente voluto che anche Karzai se ne fosse tenuto lontano, pur trattandosi di una iniziativa regionale a pieno titolo che coinvolge tutti i vicini dell'Afghanistan.

Sicuramente la SCO metterà l'Afghanistan all'ordine del giorno del vertice annuale che si terrà ad agosto a Ekaterinburg, in Russia. Pare che in questa fase Washington non sia in grado di distogliere la SCO dal suo proposito, a meno di coinvolgere le potenze regionali nella ricerca di una soluzione del problema afghano e consentire loro di parteciparvi appieno com'è loro legittimo interesse.

L'attuale linea di pensiero statunitense, d'altro canto, è orientata a stringere “grandi accordi” bilaterali trattando separatamente con le potenze regionali e impedendo loro di coordinarsi collettivamente sulla base di preoccupazioni e interessi condivisi. Ma le potenze regionali vedono il piano degli Stati Uniti per quello che è: un'astuta mossa del solito divide et impera..

Mosca respinge l'impegno selettivo
Senza dubbio queste manovre diplomatiche rivelano anche il deficit di fiducia nelle relazioni russo-americane. Mosca esprime ottimismo sulla capacità d Obama di affrontare in modo costruttivo i problemi accumulatisi nei rapporti USA-Russia. Ma non si è parlato di Russia né nel discorso di insediamento di Obama né nel documento sulla politica estera che espone il suo programma.

Lo scorso martedì il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha così sintetizzato le aspettative minime di Mosca: “Spero che gli elementi controversi delle nostre relazioni, come la difesa anti-missile, l'opportunità dell'allargamento della NATO... verranno risolti sulla base del pragmatismo, senza la presa di posizione ideologica che ha caratterizzato l'amministrazione uscente... Ci siamo accorti che... Obama era disposto a prendersi una pausa sulla questione della difesa anti-missile... e a valutare la sua efficacia e la sua efficienza in termini di costi”.

Ma la Russia non è tra le priorità della nuova amministrazione statunitense. Inoltre, come osservava la scorsa settimana l'influente quotidiano Nezavisimaja Gazeta, “Un consistente numero di congressisti [statunitensi] di entrambi i partiti ritengono che la Russia abbia bisogno di una lavata di capo”. L'attuale priorità della Russia sarà di organizzare presto un incontro tra Lavrov e il Segretario di Stato Hillary Clinton, e prima di questo incontro tutte le questioni – compresa quella spinosa della rotta di transito verso l'Afghanistan – resteranno in sospeso.

Pertanto, nella conferenza stampa di Taškent Medvedev ha acconsentito in linea di principio a concedere agli Stati Uniti il permesso di usare una rotta di transito verso l'Afghanistan che passi per il territorio russo, ma al contempo ha precisato che “Questa dev'essere una cooperazione a tutti gli effetti e su base paritaria”. Ha ricordato a Obama che la strategia del “surge” – l'aumento del livello di truppe in Afghanistan – potrebbe non sortire gli effetti auspicati. “Speriamo che la nuova amministrazione abbia maggiore successo di quella che l'ha preceduta nelle questioni relative all'Afghanistan”, ha detto Medvedev.

Evidentemente Petraeus ha trascurato il fatto che l'inutile ostinazione con cui gli Stati Uniti mantengono il controllo geopolitico dell'Hindu Kush, proprio nel cuore dell'Asia, è diventata una questione controversa. Indipendentemente dai bei discorsi, l'amministrazione Obama troverà difficile sostenere il mito che la guerra afghana serva esclusivamente a sconfiggere una volta per tutte al-Qaeda e i taliban.


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Originale: Russia stops US on road to Afghanistan

Articolo originale pubblicato il 27/1/2009

L’autore

Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica
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sighit Lo stop della Russia a......

torra agoa< La Russia preme per avere un ruolo a Kabul
Effettivamente l'Uzbekistan è il paese-chiave dell'Asia Centrale nel grande gioco per la rotta di transito settentrionale verso l'Afghanistan. Durante la visita del Presidente russo Dmitrij Medvedev a Taškent, la scorsa settimana, l'Afghanistan è stato un argomento cruciale. Medvedev ha caratterizzato le relazioni russo-uzbeke come un'“alleanza e partenariato strategico” e ha detto che sulle questioni relative all'Afghanistan la cooperazione di Mosca con Taškent assume un'“importanza eccezionale”.
Ha anche detto che con il Presidente uzbeko Islam Karimov c'è accordo sul fatto che non possa esserci alcuna “soluzione unilaterale” al problema afghano e che “non è possibile risolvere nulla senza prendere in considerazione l'opinione collettiva di stati che hanno un interesse nella risoluzione della situazione”.

Ma soprattutto Medvedev ha sottolineato che la Russia non ha obiezioni in merito all'idea del Presidente Barack Obama di collegare i problemi dell'Afghanistan e del Pakistan, ma per una ragione del tutto diversa, in quanto “non è possibile esaminare la creazione e lo sviluppo di un sistema politico moderno in Afghanistan isolandolo dal contesto della normalizzazione delle relazioni tra l'Afghanistan e il Pakistan nelle regioni di confine tra i due paesi, mettendo in moto gli adeguati meccanismi internazionali e via dicendo”.

Mosca tocca raramente la delicata questione della Linea Durand, cioè il controverso confine che separa l'Afghanistan e il Pakistan. Medvedev ha sottolineato che la Russia resta parte in causa, in quanto “è necessario far sì che questi problemi vengano risolti su base collettiva”.

In secondo luogo, Medvedev ha messo in chiaro che Mosca resisterà ai tentativi degli Stati Uniti di espandere la propria presenza politica e militare nelle regioni centro-asiatiche e del Caspio. Ha affermato infatti: “Questa è una regione-chiave, una regione in cui si svolgono diversi processi e nella quale la Russia ha un lavoro cruciale da svolgere per coordinare le nostre posizioni con i nostri colleghi e contribuire a trovare soluzioni comuni ai problemi più complessi”.

In parole povere, Mosca non consentirà che si ripeta la tattica degli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001, quando vollero imporre una presenza militare in Asia Centrale come misura temporanea e poi procedettero freddamente a trasformarla in una base d'appoggio a lungo termine.

Karzai guarda a Mosca
È interessante che le affermazioni di Medvedev coincidano con la notizia secondo la quale Washington starebbe abbandonando il Presidente afghano Hamid Karzai e progettando di istallare un nuovo “dream team” a Kabul.

Medvedev aveva scritto a Karzai offrendogli assistenza militare. Karzai ha apparentemente accettato l'offerta russa, ignorando le obiezioni degli Stati Uniti secondo cui in base ad accordi segreti tra USA e Afghanistan Kabul doveva ottenere il consenso di Washington prima accordarsi con paesi terzi.

Una dichiarazione rilasciata lunedì scorso dal Cremlino diceva che la Russia è “pronta a fornire ampia assistenza a un paese indipendente e democratico [l'Afghanistan] che conviva con i suoi vicini in un'atmosfera pacifica. La cooperazione nel settore della difesa... contribuirà efficacemente a instaurare la pace nella regione”. Per Kabul ha senso stringere accordi militari con la Russia, dato che le forze armate afghane usano sistemi d'arma sovietici. Ma Washington non vuole una “presenza” russa a Kabul.

Ovviamente Mosca e Kabul hanno sfidato il segreto potere di veto degli Stati Uniti sulle relazioni esterne dell'Afghanistan. Lo scorso venerdì a Mosca si sono incontrati diplomatici russi e afghani, i quali si sono “impegnati a continuare a sviluppare la cooperazione russo-afghana in ambito politico, commerciale ed economico, nonché nella sfera umanitaria”. Significativamente, hanno anche “rilevato l'importanza della Shanghai Cooperation Organization [SCO, Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, anche nota come Gruppo di Shanghai, N.d.T.]”, che è dominata dalla Russia e dalla Cina.

La SCO vuole un ruolo nella risoluzione del problema afghano
Washington non può censurare apertamente Karzai impedendogli di avvicinarsi alla Russia (e alla Cina), giacché l'Afghanistan è teoricamente un paese sovrano. Nel frattempo, Mosca sta assumendo un ruolo nelle aspirazioni di Kabul all'indipendenza. Mosca ha intensificato i propri sforzi per ospitare una conferenza internazionale sull'Afghanistan sotto l'egida della SCO. Gli Stati Uniti non vogliono che Karzai legittimi un ruolo della SCO nel problema afghano. Ed è qui che sorge l'attrito.

Il 14 gennaio Mosca ha ospitato un incontro tra i vice ministri degli Esteri dei paesi membri della SCO (Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan e Uzbekistan). Il ministero degli Esteri russo ha in seguito annunciato una conferenza prevista per la fine di marzo. L'iniziativa russa ha ricevuto grande impulso grazie alla decisione di Iran e India di partecipare alla conferenza.

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domenica 1 febbraio 2009

sghit...La vita umana come effetto collaterale

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Guardiamo per un momento questi morti che non ci toccano né ci compromettono. Sono morti imprevisti? Credo di no. Nessuno può essere sorpreso dal fatto che durante un attacco militare ci siano dei morti. I morti e le guerre possiedono lacci storici, così come le guerre e gli interessi corporativi. Sono così prevedibili questi morti che sono stati definiti, in blocco, come “effetti collaterali”. Non è vero che le “bombe intelligenti” sono stupide; persino un genio sbaglia, questo lo sappiamo tutti. Adesso, il problema etico sorge quando si accetta senza discussioni che questi “effetti collaterali” siano, in qualsiasi modo, inevitabili e che non arrestino mai l’azione che li produce. Perché? Perché ci sono cose più importanti degli “effetti collaterali”, cioè, ci sono cose più importanti della vita umana. O per lo meno di alcuni tipi di vita umana.

E quì c’è il secondo problema etico. Accettare che in un bombardamento la morte di centinaia di innocenti, uomini, bambini e donne, possano essere definiti come “effetti collaterali”, è accettare che esistano vite umane di “valore collaterale”. Adesso, se esistono vite umane di valore collaterale, perché si comincia un’azione di questo tipo in difesa della vita? La ragione e l’intuizione ci dice che il precetto porta con sé implicita un’idea, non discussa, che esistono vite umane di “valore capitale”.

Un attimo. Davanti a questa così grottesca conclusione, dobbiamo chiederci se non abbiamo errato nel nostro ragionamento. Per fare ciò, dobbiamo fare un esercizio mentale di verifica. Facciamo l’esperimento. Chiediamoci che sarebbe successo se per ogni cinque bambini neri o gialli distrutti da un “effetto collaterale” fossero morti uno o due bambini bianchi, con nomi e cognomi, con una residenza leggibile, con un passato e una cultura comune a quella di quei piloti che hanno lanciato le bombe? Che sarebbe accaduto se per ogni inevitabile “effetto collaterale” fossero morti nostri vicini? Che sarebbe accaduto se per “liberare”un paese lontano avessimo dovuto sacrificare cento bambini nella nostra stessa città, come un inevitabile “effetto collaterale”? Sarebbe stato diverso? Ma come, come può essere diversa la morte di una bambina, lontana e sconosciuta, innocente e dalla faccia sporca, dalla morte di un bambino che vive vicino a noi e parla la nostra stessa lingua? Ma quale morte è più orribile? Quale morte è più giusta e quale è più ingiusta? Quale dei due innocenti meritava di più di vivere?

Sicuramente quasi tutti saranno d’accordo sul fatto che ambedue gli innocenti avevano lo stesso diritto alla vita. Né più né meno. Allora, perché alcuni innocenti morti sono “effetti collaterali” e gli altri potrebbero cambiare qualsiasi piano militare e, soprattutto, qualsiasi risultato elettorale?

Sebbene sembri del tutto lecito che, davanti a un’aggressione, un paese inizi azioni militari di difesa, forse è ugualmente lecito ammazzare innocenti estranei in difesa dei propri innocenti, ancora sotto la logica degli “effetti collaterali”. È lecito, forse, condannare l’assassinio di innocenti propri e promuovere, allo stesso tempo, un’azione che finisca con la vita di innocenti estranei, in nome di qualcosa di meglio e di più nobile?

Un po’ più in quà, che sarebbe successo se i vermi avessero smesso di mangiare bambini poveri e avessero cominciato a mangiare bambini ricchi? Che succederebbe se a causa di una negligenza amministrativa cominciassero a morire bambini della nostra eroica e imprescindibile well to do class?

Una “pulizia etica” dovrebbe cominciare da una pulizia semantica: dovremmo depennare l’aggettivo “collaterale” e sottolineare il sostantivo “effetto”. Perché gli innocenti distrutti dalla violenza economica o armata sono il più puro e diretto effetto dell’azione, così, senza attenuanti eufemistiche. A qualsiasi persona faccia male. Tutto il resto è discutibile.

Questo atteggiamento cieco della Società della Conoscenza somiglia in tutto all’orgogliosa considerazione “la nostra lingua è meglio perché si capisce”. Soltanto che con un’intensità del tutto tragica, che si potrebbe tradurre così: i nostri morti sono veri perché fanno male.


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Originale da: La vida humana como efecto colateral

Articolo originale pubblicato l'11/1/2009

L’autore

Giorgia Guidi è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguística

torra SA DEFENZA