domenica 22 febbraio 2009

sighit israele ha bisogno della turchia

torra agoa<

HU:
Hai un ultimo messaggio per il mondo e il popolo turco?

GA: Non amo esprimere messaggi finali per tre motivi:
1. Non mi piacciono le dichiarazioni finali, insisto nel riservarmi la possibilità ricredermi e voglio poter rivedere le mie opinioni su qualsiasi argomento.
2. Credo che la gente che esprime “messaggi finali” debba essere molto importante e intelligente. Io sono soprattutto un artista. Guardo in me stesso e condivido quello che vedo con i miei ascoltatori e lettori.
3. Diversamente dai politici che sanno quello che è giusto e sbagliato per gli altri, io so a malapena quello che è giusto per me.

Comunque il mio metodo, per così dire, è molto semplice. Sono alla ricerca di una voce etica. Questo significa che in ogni circostanza cerco di capire da solo quello che è giusto e quello che è sbagliato. Non credo nel dogmatismo. Insisto sul fatto che la ricerca etica è un processo dinamico, un fare e disfare.

Circa una settimana fa un mio amico, il leggendario musicista Robert Wyatt, mi ha aiutato a formularlo nel modo più semplice ed eloquente. “Il mio metodo”, ha detto, “è molto semplice. Sono solo antirazzista”. Ed è veramente tutto qui, si tratta semplicemente di essere “antirazzista”.

Sono assolutamente contrario a tutte le forme di politica razzista, ed è per questo che disprezzo tutte le forme di politica ebraica, di sinistra, destra o centro. Sono stufo di tutte queste impostazioni “per soli ebrei”. Che si tratti dello “Stato per soli ebrei” o degli “ebrei per la pace”. Sono contrario perché queste cose servono a promuovere gli interessi tribali ebraici invece dell'umanità e della fratellanza. L'esperienza politica ebraica è in un certo senso sempre orientata in senso razziale e intrisa di sciovinismo.

Anche se sono convinto che la gente abbia il diritto di lottare per i propri diritti, come nel caso della lotta nazionale palestinese, credo anche che debba sapere come ristabilire la pace e l'armonia. Ed è questo che manca nella politica israeliana ed ebraica. Vediamo solo rabbia e vendetta, che producono una violenza sempre maggiore. È evidente che gli israeliani non hanno molta familiarità con il concetto di misericordia e compassione. Il suggerimento spiritualmente armonioso di Gesù noto come “porgi l'altra guancia” per gli israeliani è una stupidaggine. A quanto pare sono più attratti da “terrore e sgomento”. Votano democraticamente per il massacro, la distruzione e il genocidio. In fin dei conti hanno il diritto di votare. Sono l'“unica democrazia del Medio Oriente”, o almeno così dicono.


Originali: Hasan Uncular of Timeturk interviews Gilad Atzmon


Manuela Vittorelli è membro di
Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.



URL di questo articolo su Tlaxcala: http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=7025&lg=it


sadefenza<<

venerdì 20 febbraio 2009

sighit....Un islamismo aperto a sinistra: siamo di fronte all'emergere di un nuovo terzomondismo arabo?

torra agoa<<

Un nuovo modello di alleanza politica in Palestina e altrove
Le prime elezioni municipali in Cisgiordania dal 1976, che si sono tenute il 23 dicembre 2004, posero allora un interrogativo: Hamas prenderà il sopravvento su Al-Fatah? Quale sarà il rapporto di forza politica tra gli islamismi, il movimento nazionalista e la sinistra alla fine dello scrutinio? La risposta non era a senso unico: le elezioni municipali non sono state oggetto di una chiara strutturazione del campo politico. Al contrario, alcune coordinate sono state sconvolte, e sembra che alcune tendenze siano state confermate. Piuttosto che un'inesauribile opposizione tra campi nettamente delimitati – Fatah, Hamas, FPLP, FDLP, PPP [1] – localmente si sono costituite nuove alleanze, fluttuanti e congiunturali. A Bnei Zayyaid, così come a Betlemme, un'alleanza tra FPLP e Hamas permise di contestare ad Al-Fatah il predominio politico in seno al Consiglio Municipale. A Ramallah, un anno più tardi, fu una donna membro del FPLP ad essere eletta a capo del municipio, aggiungendo i tre seggi di Hamas ai sei del FPLP e mettendo in minoranza i sei consiglieri municipali di Al-Fatah.

Queste nuove alleanze si sono ugualmente configurate nel campo delle azioni militari: le frange armate del FPLP (le Brigate Abu Ali Mustafa) hanno regolarmente operato dal 2001 nella Striscia di Gaza al fianco delle Brigate Ezzedine al-Quassem (la frangia armata di Hamas) e delle Brigate al-Quds (quelle della Jihad Islamica). Infine, alcuni elementi dissidenti di Al-Fatah, strutturati intorno alla nebulosa dei Comitati di Resistenza Popolare (CPR), si sono poco a poco avvicinati alla direzione “gazaista” di Hamas: quest’ultimo, dopo la sua vittoria alle elezioni legislative del gennaio 2006, nominò uno dei principali attivisti dei CPR, Jamal Samhadana [2], ex militante di Al-Fatah, a capo dei nuovi servizi di sicurezza palestinesi formati dal governo di Hamas; si trattava allora di fare da contrappeso, soprattutto nella Striscia di Gaza, alle forze di sicurezza dirette da Mohammad Dahlan, dirigente di Al-Fatah. Samhadana simboleggia questa frangia di Al-Fatah che si è poco a poco allontanata dalla direzione del partito, e che conferma il suo progressivo sviluppo, accelerato dalla morte di Yasser Arafat l’11 novembre 2004, la cui aura simbolica permetteva di assicurare ancora un minimo di unità interna. È così che Saed Siyyam, il nuovo Ministro degli Interni palestinese, membro di Hamas, ha scelto un ex-membro di Al-Fatah, ovvero un elemento politico uscito dal nazionalismo palestinese (e non dal movimento islamico stesso) per dirigere i servizi di sicurezza senza altro scopo (…) se non quello di concorrere sul terreno del predominio armato della Sicurezza preventiva, associata alla direzione di Al-Fatah.

Gli scontri Fatah-Hamas degli ultimi due anni corrispondono a una divergenza politico-strategica, a una differenza riguardo alla posizione da adottare di fronte a Israele e alla comunità internazionale, non a una querelle ideologica laici-credenti. E nel momento in cui i due partiti maggiori Fatah-Hamas favoriscono con il loro scontro fratricida un processo di guerra civile latente, sono il FPLP e il Movimento della Jihad Islamica (MJIP) – ovvero un’organizzazione di sinistra e un’organizzazione islamica – a ricoprire solitamente il ruolo di intermediari. Se il FPLP resta oggi scettico verso Hamas, ciò avviene perché il primo rimprovera al secondo di chiudersi in un testa-a-testa armato Hamas-Fatah, che frena l’unità nazionale palestinese e che rischia di precipitare i territori palestinesi nel caos dell’ordine pubblico. E ancora una volta questa posizione viene condivisa dal FPLP con la Jihad islamica, insieme alla quale ha potuto manifestare nelle strade di Gaza durante gli avvenimenti del giugno 2007.

La cartografia politica palestinese non fa eccezione: il campo politico arabo sembra essere in piena ricomposizione, e le tradizionali divisioni, in particolare quelle che avevano visto opporsi i campi religioso e secolare, o laico, sono poco a poco sfumate in tutta la regione. L’islam politico subisce una fase ormai accelerata di nazionalizzazione e regionalizzazione, mentre i settori nati dalla sinistra e dal nazionalismo arabo, baathista o nasseriano, che si trovano a perdere un modello politico e un partner strategico e sono in preda a una crisi strutturale e militante, tentano poco a poco di ridefinire i propri modelli ideologici e pratici, e si ritrovano obbligati a diversificare la loro rosa di alleanze privilegiando così il partner islamico. A partire dal 2000, nel mondo arabo si è aperta una fase di ricomposizione politica, secondo ritmi e tempi eterogenei a seconda dei paesi e degli spazi, segnando alcuni punti di contatto con il passato e portando con sé problematiche e fratture nuove.

Questa ricomposizione politica si gioca intorno alla questione nazionale araba e alla questione democratica: in un contesto politico segnato dall’Intifada palestinese del settembre 2000, dall’offensiva americana contro l’Iraq nel 2003, così come dalla recente «guerra dei trentatré giorni» tra Hezbollah e Israele, la questione nazionale è stata riposta nel mondo arabo, e determina i modelli di azione e contestazione, le forme di ricomposizione politica e le differenti modalità di alleanza tattica tra le correnti che si oppongono al piano americano di «Grande Medio Oriente». A ciò si aggiunga la questione democratica: nella misura in cui i sistemi arabi soffrono in larghissima parte di un modello fondato sull’autoritarismo e il nepotismo politico, e la maggioranza di essi (dall’Egitto alla Giordania, passando per l’Arabia Saudita e le principali petro-monarchie del Golfo) si ritrovano organicamente legati ai diversi interessi americani ed europei nella regione, la contestazione nei confronti della politica israeliana e americana passa spesso per una denuncia dei sistemi politici interni; in Egitto, negli anni dal 2000 al 2006, sono stati gli stessi quadri politici e le stesse strutture di mobilitazione a passare di volta in volta dalla mobilitazione in favore dei palestinesi e degli iracheni a quella in favore della democratizzazione del regime.

Questione nazionale araba e questione democratica tracciano dunque una serie di avvicinamenti trasversali tra lo spazio panarabo storicamente focalizzato sulla problematica palestinese e lo spazio nazionale interno: dal 2000, un’interazione costruttiva tra la dimensione panaraba della politica e la sua espressione nazionale interna, e una trasversalità accresciuta tra questione nazionale araba e questione democratica, favoriscono una serie di mutamenti politici che portano ad alleanze tattiche e/o strategiche tra la sinistra radicale, i settori nati dal nazionalismo arabo nasseriano o baathista e, infine, le formazioni islamico-nazionaliste. Questa interazione fra differenti spazi – nazionali, regionali, globali – così come questa trasversalità tra correnti politiche un tempo opposte, permettono che si delinei poco a poco una riformulazione del nazionalismo arabo, una ricomposizione politica lenta e progressiva del campo politico che comincia appena a sconvolgere i dati politici, e che rompe specialmente con gli scenari d’azione generati dalla storia del XX secolo.

Dal «concordismo politico» alla dinamica unitaria
La sinistra di ispirazione marxista, i nazionalismi arabi di diversa osservanza e infine i settori centrali dell’islam politico sembrano oggi collaborare a stretto contatto. Non è stato però sempre così: i differenti tipi di nazionalismo arabo si sono distinti per vari decenni attraverso politiche repressive a fronte di correnti che derivavano dai Fratelli musulmani, che si trattasse dell’Egitto di Nasser o della Siria di Hafez el-Assad; l’islamismo politico, nella sua fase crescente degli anni ’80, in seguito alla rivoluzione iraniana del 1979, si è da parte sua caratterizzato come un sistema di repressione diretta dei gruppi di sinistra allorché questi erano di intralcio al suo sviluppo e affondavano le loro radici in alcuni settori chiave del mondo universitario, politico, sindacale o associativo. In Libano, durante tutti gli anni ’80, Hezbollah se la prese fisicamente con i militanti sciiti del Partito Comunista libanese nel momento in cui si trattò di contendere loro l’egemonia della resistenza nazionale nel sud del Libano. Due dei suoi più brillanti intellettuali, Mahdi Amil e Hussein Mroue, furono assassinati da militanti vicini all’orbita islamica [3].

In Palestina, i gruppi che si evolvevano nella nebulosa dei Fratelli musulmani e che stavano dando alla luce il Movimento della Resistenza Islamica (Hamas) nel 1986, a loro volta se la presero con i militanti del FPLP e del PPP. Il dottor Rabah Mahna, che è oggi il negoziatore dell’Ufficio Politico del FPLP nelle discussioni intra-palestinesi e che si trova regolarmente a cercare dei punti d’intesa tanto con Hamas quanto con la Jihad Islamica, fu per esempio vittima di un tentato omicidio da parte dei militanti di Hamas nel 1986. Ma la visione che ha del movimento islamico è determinata dalla realtà politica attuale, non da quella del passato: parlando di Hamas, ne sottolinea i punti di progresso e di stagnazione, e il modo in cui entrambi si combinano più o meno diversamente secondo la congiuntura politica: «troviamo una certa evoluzione all’interno di Hamas. Dal 1988, si è in effetti poco a poco trasformato da una organizzazione del tipo dei Fratelli Musulmani in un movimento di liberazione nazionale islamico. Noi abbiamo spinto poi Hamas ad integrare l’OLP, fare in modo di essere un movimento di liberazione nazionale in seno all’OLP. Ma il suo rifiuto a riconoscere l’OLP alla fine era per noi molto sospetto (…). Non facciamo pressione su Hamas, quindi, e lo riconosciamo in quanto corrente della resistenza, e secondariamente come governo eletto. Ma al di là di questo non vogliamo che Hamas resti bloccato in una visione chiusa, ideologica, dello stesso genere di quella dei Fratelli Musulmani: è per questo motivo che le forze politiche mondiali e arabe che sostengono la causa palestinese, ma che non sono d’accordo con tutto o con parte del programma di Hamas, devono aiutarci a farlo uscire da una visione chiusa in se stessa e a continuare la sua evoluzione. Altrimenti, isolandosi, si rischia che torni indietro, ripiegando verso un movimento di tipo integralista, come prima del 1988 [4]».

Se in passato ci sono stati scontri, le differenti modalità di opposizione tra nazionalisti, islamismi e sinistra radicale possono essere storicamente relativizzate tramite una serie di passaggi dinamici, di prestiti discorsivi e ideologici, di circolazione militante tra questi tre settori politici chiave del mondo arabo: già il sociologo Maxime Rodinson ricordava che tra il nazionalismo arabo, l’islam e il marxismo esisteva un «concordismo», che favoriva la circolazione di idee e pratiche. «L’incompatibilità dottrinale incontestabile tra varie ideologie cede a diversi processi di conciliazione quando le considerazioni sulla strategia internazionale fanno propendere verso un atteggiamento amichevole tra i due movimenti (comunisti e musulmani). Troviamo prestiti d’idee all’ideologia comunista da parte dei Musulmani quando queste idee corrispondono a ciò che la loro ideologia implicita rivendica, anche al di fuori di questo atteggiamento amichevole. […] Quando ci si spinge ancora oltre, avviene normalmente una reinterpretazione di nozioni, idee, simboli musulmani come equivalenti d’idee o di temi comunisti correnti. L’operazione avviene spesso per mano dei comunisti che vogliono spingere all’alleanza. Quando lo sforzo di reinterpretazione è particolarmente forzato, si ottiene quello che abbiamo chiamato concordismo. Il termine potrebbe essere forse generalizzato per indicare un insieme sistematico di reinterpretazione [5]».

Ciò che Olivier Carré chiamava i «settori mediani» tra religione e nazionalismo [6] è un fenomeno che si può osservare lungo tutto il secolo e nella nascita e sviluppo di queste tre correnti. La generazione dei fondatori del movimento nazionale e di Al-Fatah - Yasser Arafat, Khalil al Wazir, Salah Khalaf – hanno camminato fianco a fianco con i Fratelli Musulmani nel corso degli anni ’50 e ’60. Il nasserismo stesso non è esente, nei primi anni che seguono la rivoluzione del 1952, da un rapporto complesso con l’islam politico. A questi percorsi personali si aggiungono una riutilizzazione e una reinterpretazione sistematica dei differenti tipi di discorso religioso o politico da parte di una serie di movimenti, una circolazione permanente di insiemi semantici e concettuali. Per esempio, il Partito Comunista Iracheno (PCI), non ha esitato a fare riferimento ai fondamenti dottrinali dello sciismo poco dopo la rivoluzione del 1958 e la presa del potere da parte di Abdel Karim Kassem. La prospettiva rivoluzionaria fu associata, nel discorso del PCI, ai fondamenti millenaristi e messianici dello sciismo, mentre i dirigenti del Partito giocavano arditamente sulla prossimità tra i termini shii'a (sciita) e shoyou 'i (comunista in arabo). Quanto al termine socialista (ishtarâkii), fu largamente utilizzato e trasformato da certi quadri e ideologi dei Fratelli Musulmani, come Sayyid Quotb o Muhammad al-Ghazali, nella prospettiva di un «socialismo islamico».

Si assiste così, dopo circa mezzo secolo, a una circolazione dinamica e a una mutazione continua del vocabolario politico. È come dire che l'ideologia stessa si è sottomessa a dei complessi processi di passaggio, di prestiti e di reinterpretazioni che restano in perenne movimento una volta entrati nella pratica politica. La temporalità del nazionalismo dei paesi del Terzo Mondo è in effetti una temporalità politica differenziata, in cui il passato, le tradizioni culturali e le eredità ideologiche figurano come i costituenti primi della coscienza nazionale: il nazionalismo anticoloniale è uno spazio ibrido, che interagisce con gli elementi della modernità politica, ma che si pone criticamente rispetto ad essi per quanto riguarda il recupero, il riciclaggio e il reinvestimento degli elementi estratti dal passato. I «concordismi» tra nazionalismo e islam hanno corrisposto ad un’attualizzazione politica e ideologica dell’Islam, che allora non era tanto un residuo del passato quanto un elemento culturale ereditato, vivo e pratico, in interazione e mescolanza permanente con il presente politico, anche e soprattutto quando era di essenza secolare e laica. Il nazionalismo anticoloniale, fondato storicamente su una serie di «concordismi», non è il contrario della modernità, ma la sua ripresa e trasformazione nel contesto particolare di uno spazio che si sente dominato tanto politicamente quanto culturalmente.

Il decennio degli anni ’80 è essenzialmente segnato dal passaggio crescente e spettacolare dei militanti marxisti, spesso maoisti o nazionalisti arabi, verso l’islamismo politico. Ciò è particolarmente evidente in Libano dove, quando l’OLP viene poco a poco portato a lasciare il Paese dei Cedri e l'asse «palestino-progressista [7]» scompare sotto i colpi delle divisioni interne e delle pressioni siriane, i giovani quadri entrano in Hezbollah, nato tra il 1982 e il 1985. Lo stesso accade alla maggioranza dei combattenti della Brigata Studentesca, la Katiba Tullabiya, corpo militare associato al movimento palestinese Fatah, che si impegna poco a poco nella resistenza militare islamica del «Partito di Dio», o in altre strutture di carattere islamico, sotto gli effetti della Rivoluzione Iraniana.

L'esperienza di questa tendenza di sinistra di al-Fatah nata all'inizio degli anni '70 è particolarmente interessante: ben prima della rivoluzione iraniana, dei giovani militanti libanesi e palestinesi tentano di articolare islam, nazionalismo e marxismo arabo, prova che la questione dei rapporti fra i tre era già posta. Saoud al Mawla, oggi professore di filosofia all'Università Libanese di Beirut, ex membro della frangia di sinistra di al-Fatah, è passato ad Hezbollah negli anni '80, lasciandolo poi in seguito. E spiega: «negli anni '70 ci si iniziava ad interessare alle lotte dei popoli musulmani. Era un misto di nazionalismo arabo e islam, o meglio di comunismo arabo-islamico, di marxismo arabo-islamico. Si tentò di fare come i comunisti musulmani sovietici degli anni '20 (Sultan Ghaliev), e si iniziò a studiare l'Islam dal momento in cui si cominciò ad applicare i principi maoisti: bisogna conoscere le idee del popolo, interessarsi al popolo, a ciò che pensa... bisogna conoscere le tradizioni del popolo. In tal modo esordì l'interesse per le tradizioni popolari, e per tutto ciò che costituisce la vita delle persone. E l'Islam, in quanto fondamento di questa società, è stato considerato capace di mobilitarla. E ciò in un senso militante, pragmatico - prendere e utilizzare i fattori che possono mobilitare le persone alla lotta. È in questo modo che ci si è accostati all'islam: a partire dal maoismo, da un punto di vista teorico, e a partire dall'esperienza quotidiana (...) ed è per questo che, al momento della rivoluzione iraniana, si era già a quel punto. E neanche questo è stato fatto su basi ideologiche o religiose, cioè si è vista nell'Islam una forza civilizzante, politica, una corrente apportatrice di civiltà che potesse raggruppare cristiani, marxisti e musulmani, una riflessione, una risposta immediata, un cammino di lotta per rinnovare i nostri approcci, le nostre idee, le nostre pratiche politiche [8]». Se gli anni '70 possono ancora prestarsi presso certi militanti a una riflessione teorica e politica sull'articolazione tra marxismo, islam e nazionalismo, gli anni '80 - segnati dagli effetti regionali ideologici e politici della rivoluzione iraniana e dall'egemonia politica dell'islamismo politico - non lasciano più posto a queste elaborazioni.

In particolare, gli anni '90 segnano una rottura, e il tacito sistema che aveva visto allearsi «concordismo» e opposizione violenta si è poco a poco trasformato in una dinamica unitaria, in cui il «concordismo» è stato ancor di più favorito da un processo di alleanze tattiche tra queste differenti correnti. In effetti con la Guerra del Golfo, con i tentativi di regolare il conflitto israelo-palestinese attraverso la conferenza di Madrid e gli accordi di Oslo del 1993, con la fine del bipolarismo Est-Ovest e con la riunificazione dello Yemen, è un intero mondo che affonda. La fraseologia rivoluzionaria e nazionalista è sulla bocca di tutti, che sia islamica o marxista; cioè non è estraneo nemmeno all'abbandono progressivo del discorso messianico e terzomondista da parte del regime di Teheran, sotto l'impulso dei nuovo Presidente Rafsanjani.

Le coordinate politiche sono cambiate. Bisognerà determinare dove è avvenuto un triplo scacco: dell'islam politico, del nazionalismo arabo, della sinistra. Ma al di là di questo, è certo sulle macerie delle grandi utopie e delle mitologie multiple del secolo uscente che poco a poco va a ricostruirsi e ricomporsi il campo politico arabo. Le dinamiche in atto non sono più unilaterali: se negli anni '80 l'islamismo raccoglieva i frutti degli errori politici e sociali del mondo arabo, dal 1991 si assiste a una più grande interazione e a una più ampia trasversalità delle dinamiche politiche. Sinistra, nazionalismo e islamismo si trovano ormai in un complesso processo di rielaborazione ideologica e programmatica, di incroci di problematiche a fronte di un sentimento di sconfitta e impasse del mondo arabo.

Questo può essere constatato, in primo luogo, in Palestina: poco dopo gli accordi di Oslo, nell'ottobre 1993, si costituisce una «Alleanza delle forze palestinesi», composta di elementi che avevano rotto con al-Fatah, ma soprattutto da elementi dell'FPLP marxista e di Hamas [9]. Si creano poi dei progressivi quadri di discussione tra nazionalisti, marxisti e islamisti: la Fondazione Al-Quds, a leadership islamista, e soprattutto la Conferenza nazionalista e islamica, lanciata nel 1994 su iniziativa del Centro Studi per l'Unità Araba (CEUA) di Khair ad-Din Hassib, con base a Beirut, che si riunisce ogni quattro anni ed è destinata a trovare punti di accordo tattici e/o strategici e a ridefinire i legami, anche dal punto di vista ideologico, tra sinistra, nazionalismo e islamismo. La CEUA ha così tenuto a Beirut, nel marzo 2006, una Conferenza Generale araba di sostegno alla resistenza, in cui le principali direzioni di organizzazioni nazionaliste, di ispirazione marxista e islamiste (in particolare Hamas e Hezbollah) erano fortemente rappresentate.

Questione nazionale e questione democratica
Dal 2000, i ritmi di ricomposizione politica tra nazionalismo, sinistra radicale e islamo-nazionalismo sono accelerati: sulla spinta della Seconda Intifada e dell'intervento americano in Iraq, le convergenze tattiche tra di essi si sono accentuate. Queste ruotano principalmente intorno alla questione nazionale e alla questione delle «occupazioni», dalla Palestina all'Iraq passando per il Libano, e intorno alla denuncia congiunta delle politiche americane e israeliane.

È prima di tutto sul campo che si realizzano le alleanze, sul terreno pratico, non su quello teorico: al momento della «guerra dei trentatré giorni» tra Libano e Israele, durante il giugno e l'agosto del 2006, il Partito Comunista Libanese (PCL) ha riattivato alcuni dei suoi gruppi armati nel sud del Libano e nella piana di Baalbek, e ha combattuto militarmente al fianco di Hezbollah. In alcuni villaggi come Jamaliyeh, dove tre militanti sono morti a causa di un attacco di un commando di Israele respinto, è appunto il PCL che ha potuto prendere l’iniziativa militare e politica, anche se Hezbollah mantiene di fatto la leadership politica, militare e simbolica di questa guerra. Si è creato così un Fronte della Resistenza che raggruppa essenzialmente Hezbollah e la sinistra nazionalista, dal PCL al Movimento del Popolo di Najah Wakim [10], passando per la Terza Forza dell’ex Primo Ministro Selim Hoss; fondato sul principio del diritto alla resistenza e teso a difendere le principali rivendicazioni di Hezbollah – ovvero la liberazione dei prigionieri libanesi in Israele e la ritirata israeliana dai territori libanesi di Sheba'a e Kfar Shuba – questo fronte aveva come denominatore comune la questione nazionale e la posizione nei confronti di Israele: non era, per esempio, un fronte pro-siriano, poiché il Partito Comunista aveva da parte sua una lunga tradizione di lotta contro la tutela e la presenza siriana in Libano.

L’accordo tattico sulla questione nazionale non permette di parlare a priori di «ricomposizione politica». Il punto della questione è allora sapere se l’accordo tattico può trasformarsi in accordo più o meno strategico, e includere una visione a lungo termine della società, dello Stato, delle politiche economiche. È lì che la trasformazione del campo politico arabo sembra essere più profonda: dal 2000 al 2006, la serie di accordi politici tra sinistra, nazionalisti e islamisti si è poco a poco allargata ad un insieme di tematiche, cosa del tutto nuova in rapporto ai quadri di alleanze degli anni 1980 e 1990.

La questione nazionale permette quindi di effettuare una serie di passaggi concettuali, pratici e politici, da un campo all’altro: in Egitto, la denuncia delle politiche americane e israeliane nascondeva in effetti una critica latente ma esplicita del regime del presidente Mubarak. Rapidamente, i quadri di mobilitazione sulla questione palestinese e irachena hanno dato vita ad un’altra serie di quadri politici trasversali, toccando in particolare la questione democratica: da campagne di denuncia della legge d’emergenza del 1982 alle elezioni sindacali del novembre 2006, che hanno visto i Fratelli Musulmani, i radicali di sinistra del gruppo Kefaya e i nasseriani del movimento al-Kamarah allearsi per contestare il predominio delle liste del partito al potere (il Partito Nazionale Democratico), passando per le campagne di sostegno al movimento di protesta dei giudici egiziani che avevano denunciato la frode elettorale nel maggio del 2006, il campo d’azione e di alleanze è passato rapidamente dalla questione nazionale a quella dell’allargamento dei diritti democratici.

In Libano, il Movimento del Popolo, l’Organizzazione Popolare Nasseriana (sunnita, il cui dirigente, Osama Saad, è deputato di Saida) e il Congresso popolare arabo di Kamal Chatila (una formazione nasseriana) sono al cuore del movimento di protesta iniziato da Hezbollah e dalla Corrente Patriottica Libera del Generale Aoun nel dicembre 2006, movimento che ha trovato la sua voce nel quotidiano di sinistra al-Akhbar: qui, ancora, la mobilitazione dell’opposizione non tocca solo la questione nazionale e le «armi della resistenza». I tratti comuni tra le organizzazioni dell’opposizione al governo di Fouad Siniora riguardano tanto la questione della riforma della legge elettorale e del sistema confessionale, quanto quella della definizione di una politica economica di stato di tipo regolatore, o keynesiano, senza per questo rimettere in causa i meccanismi del mercato, tutte opzioni che non sono quelle della maggioranza parlamentare attuale, fortemente segnata dall’ultraliberismo [11]. Un buon esempio ne è il nuovo giornale al-Akhbar, quotidiano di sinistra assai vicino a Hezbollah, il cui primo numero è uscito nell’agosto del 2006 e che cerca di creare, di fatto, dei punti di congiunzione teorici e politici tra la sinistra, il nazionalismo e l’islam. Il PCL, che ha via via stabilito negli anni una sorta di partnership con Hezbollah, sostiene l’opposizione sulla questione della caduta del governo Siniora, considerato come pro-americano. Tuttavia, il PCL stesso non nasconde che la sua alleanza con Hezbollah e partiti dell’opposizione è un punto critico: per il PCL, il programma avanzato da Hezbollah non è ancora abbastanza radicale, sul piano sia politico che economico, da poter rimettere in discussione il sistema libanese, fondato sul confessionalismo politico. Pronto a fare fronte comune, non risparmia le sue critiche a Hezbollah, ma in maniera diversa rispetto agli anni ’80: ormai si tratta di definire una politica di sinistra indipendente che sia pronta a stabilire una complementarità e uno scambio costruttivo con il movimento islamico sciita.

La questione nazionale si gioca quindi oggi per estensione: quando negli anni ’90 le alleanze tra sinistra, nazionalisti e islamisti erano semplicemente fondate sul riconoscimento di un nemico comune – nel caso specifico Israele – la collaborazione sul lungo periodo tra queste correnti sfocia in definitiva in un allargamento del campo d’azione politica, che va dalla questione nazionale alla questione democratica, e dalla questione democratica alla questione dello Stato, delle istituzioni e delle forme sociali da adottare. Il «concordismo» e le mediazioni tra le organizzazioni e le correnti si sono poco a poco trasformati in una dinamica d’azione unitaria che, sebbene sia poco teorizzata e concettualmente elaborata, assume un’ampiezza evidente nella pratica politica quotidiana.

Questa ricomposizione politica non è indipendente dalle nuove dinamiche politiche mondiali in atto, con un movimento altermondialista consolidato nel paesaggio politico ma anche e soprattutto con l’apparizione di un polo nazionalista di sinistra in America Latina, rappresentato da Hugo Chavez ed Evo Morales. Un movimento islamo-nazionalista come Hezbollah elabora la sua rosa di alleanze secondo un modello terzomondista: Hassan Nasrallah non smette di fare riferimento al presidente venezuelano, mentre la sua organizzazione, insieme al Partito Comunista Libanese, ha invitato a Beirut, dal 16 al 20 novembre 2006, quasi 400 delegati della sinistra mondiale e del movimento altermondialista, nello scenario di una conferenza di solidarietà con la resistenza, e il cui comunicato finale fissava tre punti strategici: la questione nazionale e la lotta contro le occupazioni, la difesa dei diritti democratici e la protezione dei diritti sociali [12].

Queste dinamiche di ricomposizione politica in atto sono oggi sottovalutate: la questione libanese in genere non è percepita se non dal prisma siriano e iraniano, sottostimando le dinamiche interne proprie alla società politica libanese. La sfera d’azione islamica subisce essa stessa delle svolte programmatiche profonde: Hezbollah adotta un discorso terzomondista, fondato sull’opposizione sud-nord e Mustakbar (arroganti) [13]/musta’ adafin (oppressi); alcuni quadri dei Fratelli musulmani sono combattuti tra le alleanze con la sinistra e la difesa del principio dell’economia di mercato. Come scrive Olivier Roy, «il gioco di alleanze (degli islamisti) va in due direzioni possibili: da una parte, vi è una coalizione sui valori morali (…), e, dall’altra, un’alleanza su valori politici essenzialmente di sinistra (antiamericanismo, altermondialismo, diritti delle minoranze), in cui la linea di separazione è rappresentata chiaramente dalla questione della donna».

E proprio la questione femminile è oggi oggetto di dibattito: in Libano come in Palestina, le associazioni femministe nate dalla sinistra non esitano più a condurre campagne comuni con le associazioni delle donne islamiste, specialmente sulla questione del diritto al lavoro e della denuncia delle violenze sulle donne. Per Islah Jad, militante femminista palestinese e ricercatrice sul movimento delle donne in Palestina, non si tratta di opporre le donne laiche a quelle islamiche, ma di sviluppare un discorso femminista secolare e radicale, discutendo e lavorando insieme con i quadri femminili del movimento islamico: «Gli islamisti hanno ammesso che le donne erano perseguitate e vittime dell’oppressione sociale, mettendo la questione non sul piano della religione ma delle tradizioni che bisogna far evolvere. Secondo loro, l’Islam chiede che le donne si organizzino per liberare il paese, che vengano educate, organizzate e politicizzate, rese attive per lo sviluppo della loro società. Il paradosso è che il 27% dell’organizzazione del partito islamico è donna e il 15% è fa parte del “politburo”, più che nell’OLP (…). Come ho già detto, il fatto che le donne islamiche non cerchino di costruire il proprio discorso politico appoggiandosi ai testi religiosi offre alle donne laiche delle possibilità di influenzare la visione e i discorsi degli islamisti, e di evitare blocchi. Non possiamo reclamare i nostri diritti isolandoli dal contesto politico. È una tappa importantissima per stabilire una relazione di fiducia tra le tendenze laiche e islamiste. Il fatto che gli islamisti accettino di riconoscere l’oppressione delle donne apre delle prospettive sulle misure da prendere per far evolvere la società. Ci saranno sempre conflitti ideologici e politici, ed è auspicabile. Non si sarà mai totalmente d’accordo ma, secondo me, le donne laiche possono pesare nel dibattito ideologico con gli islamisti [15]».

Questa interazione pratica tra sinistra araba, nazionalismo e islamismo, seppur nuova e ormai realizzata tanto in campo sindacale quanto associativo, elettorale e militare, è ancora soltanto agli inizi. Dei punti d’accordo sulla questione nazionale, la democrazia o la difesa dei diritti sociali non costituiscono ancora un corpus abbastanza chiaro e stabile per sapere fino a che punto questa alleanza possa realmente unire. C’è un giusto scarto tra la teoria e la pratica: i «concordismi» sono stati approfonditi ma non c’è ancora stata, in campo intellettuale e teorico, una definizione chiara e l’elaborazione di un linguaggio comune. Le alleanze sono ancora per la maggior parte empiriche e pratiche, e mancano di assetto teorico e di un vero processo di omogeneizzazione. Ancora una volta, il Libano fa più o meno eccezione. Ultimamente esiste ancora una separazione tra gli spazi nazionali: l’alleanza più forte tra sinistra, nazionalisti e islamisti la si trova oggi proprio in Libano, nel tentativo di definire ciò che la sinistra e Hezbollah chiamano una «società di resistenza» e uno «Stato di resistenza». In Palestina, le alleanze tra FPLP e Hamas, per esempio, sono ben lontane dall’essere approfondite, poiché le due organizzazioni mantengono una certa diffidenza reciproca. In questo caso, la partnership FPLP/Jihad islamica è da parte sua pienamente stabilita. In Egitto persiste una certa diffidenza tra i Fratelli Musulmani e l’area di sinistra. Ora, la questione della ricomposizione politica e delle nuove alleanze in atto nel mondo arabo non è affatto secondaria: essa ridisegna in effetti il volto del nazionalismo panarabo e potrebbe infine costituire una temibile sfida strategica e internazionale per i regimi in vigore, come pure per gli Stati Uniti e le potenze europee. L’apertura del movimento islamo-nazionalista a sinistra può in effetti offrire ad un nuovo nazionalismo panarabo in mutazione una temibile apertura strategica e internazionale: può sfociare nella riemersione di un polo terzomondista e nazionalista su scala internazionale, come simbolicamente suggerisce una serie di manifesti rossi comparsi nelle strade di Beirut dopo il settembre del 2006, e che vede accostati i tre ritratti di Nasser, Nasrallah e Chavez. Non si tratta dunque si postulare l’emergere di un islamismo di sinistra, poiché non ce n’è uno. Si tratta piuttosto di comprendere che lo sviluppo di un islamismo aperto a sinistra e alle sue dimensioni nazionali cambia la situazione politica e mette in moto lunghi processi di ricomposizione politica, strategica e ideologica. Gli ultimi vent’anni hanno visto il referente politico islamista differenziarsi, con un islamismo fondamentalista deterritorializzato sul modello della rete di Al-Qaida, e la sottomissione di un neofondamentalismo islamico ai modelli del mercato, nonché l’apparizione di un islamismo governativo turco, più simile al modello consensuale della democrazia cristiana degli anni ’50 che a quello dell’Islam come modello di Stato. Ancora ai suoi inizi ma in via di sviluppo esponenziale, l’emergere di un polo islamico aperto tanto a sinistra quanto alle dimensioni nazionaliste e arabe costituisce un fenomeno politico che è in grado esso stesso di ricomporre in modo duraturo la scena politica mediorientale.

Note:
[1] al-Fatah, movimento nazionale per la liberazione della Palestina, è l’organizzazione storica del nazionalismo palestinese. L’FPLP (Fronte Popolare di Liberazione della Palestina) e l’FDLP (Fronte Democratico di Liberazione della Palestina) sono le due organizzazioni principali dell’estrema sinistra. Hamas – Movimento di resistenza islamica – è la prima organizzazione islamista, in termini di forze militanti. Il PPP (Partito Popolare Palestinese), infine, è l’ex Partito Comunista.

[2] Jamal Samhadana è poi stato giustiziato in un’operazione israeliana mirata, nel giugno del 2006.

[3] Alcune fonti libanesi accusano direttamente Hezbollah. Tuttavia, alcuni dirigenti del Partito Comunista oggi lasciano sussistere il dubbio, e non scartano la tesi di assassinio perpetrato da gruppi integralisti sunniti.

[4] Rabah Mhana, membro dell’Ufficio Politico del FPLP, conversazione con l’autore, Parigi, 2 maggio 2006

[5] Maxime RODINSON, «Rapport entre islam et communisme» (Il rapporto tra Islam e comunismo), Marxisme et monde musulman, Seuil, 1972, pp 167- 168

[6] Su questo argomento, cfr. Olivier CARRE, L’Utopie islamique dans l’orient arabe (L’utopia islamica nell’oriente arabo), Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, 1994.

[7] L’asse che si è comunemente chiamato «palestino-progressista» è costituito da organizzazioni della sinistra libanese (Partito Socialista Progressista, Organizzazione d’Azione Comunista del Libano) e dalle forze palestinesi in Libano (Fatah, FPLP, FDLP). Negli anni ’70, è principalmente quest’asse ad opporsi, nel quadro della guerra civile, alle milizie cristiane, le Falangi Libanesi.

[8] Saoud al Mawla, conversazione con l’autore, Quoreitem, Beiruth, 27 marzo 2007

[9] L’insieme di queste organizzazioni si unisce sul rifiuto incondizionato degli Accordi Provvisori di Oslo, firmati nel 1993 dal leader dell’OLP, Yasser Arafat.

[10] Il Movimento del Popolo è un’organizzazione nazionalista araba di sinistra. Il suo leader, Najah Wakim, ex deputato nasseriano di Beirut, è una personaggio politico nazionale, conosciuto in particolare per le sue campagne di lotta contro la corruzione.

[11] Il punto di vista dell’opposizione a proposito della riforma del sistema libanese sul modello di uno Stato «forte e giusto» può essere compreso soprattutto attraverso due documenti chiave: in primo luogo il documento d’intesa reciproca tra Hezbollah e la Corrente Patriottica Libera del 6 febbraio 2006, e in secondo luogo il documento comune prodotto dal Partito Comunista Libanese e la Corrente Patriottica Libera: “Come risolvere la crisi in Libano? I punti comuni tra il Partito comunista libanese (PCL) e la Corrente patriotica libera (CPL)”, 7 dicembre 2006.

[12] La seduta d’apertura della Conferenza, il 16 novembre 2006, al palazzo dell’UNESCO di Beirut, è stata simbolica di questa convergenza progressiva tra la sinistra mondiale e altermondialista e la sfera islamo-nazionalista: tra gli interventi d’apertura, vi erano in particolare Mohammad Salim (membro del Parlamento indiano e del Partito Comunista indiano), Gilberto Lopez (del Partito della Rivoluzione Democratica messicana), Victor Nzuzi (agricoltore e leader sindacalista congolese), Georges Ishaak (dirigente di Kifaya e militante della sinistra egiziana), Khaled Hadade (Segretario generale del Partito Comunista Libanese), ed infine Naim al-Quassem (Segretario generale aggiunto e numero due dell’Hezbollah libanese).

[13] L’opposizione Arroganti/Oppressi rinvia direttamente alla rivoluzione iraniana del 1979, così come al principio dottrinario dello sciismo. Nel vocabolario politico del primo periodo della rivoluzione del ’79, la coppia Arroganti/Oppressi stava a significare l’opposizione tra poveri e ricchi, ma anche tra il sud «colonizzato» e il nord «imperialista». Questa categorizzazione veniva adottata tanto dai Mullah vicini a Khomeini quanto dai gruppi di sinistra e nazionalisti.

[14] Olivier Roy, «Le passage à l’ouest de l’islamisme: rupture et continuité (Il passaggio a ovest dell’islamismo: rottura e continuità), Islamismes d’occident. Etat des lieux et perspectives, sous la direction de Samir Amghar, Lignes de repères, 2006.

[15] Islah Jad, conversazione con Monique Etienne, rivista Pour la Palestine, marzo 2005.


Originale: Un islamisme ouvert sur sa gauche: l’émergence d’un nouveau tiers-mondisme arabe?

Articolo originale pubblicato il 20/1/2009

L’autore

Loredana Miele è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

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martedì 10 febbraio 2009

sighit quale economia .....corsica

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- L'azione dello Stato, nonostante il calo significativo del numero di dipendenti amministrativi, non sarà carente. Favorendo la condivisione delle competenze tra Stato e comunità locali, creando organi di funzione pubblica polivalenti in settori con ampie interrelazioni, la produttività del servizio pubblico sarà notevolmente aumentata. D'altro canto la creazione di due blocchi di competenze, che includono ambiente, agricoltura, acqua, energia, trasporti, coesione sociale comprese cultura ed attività ricreative, alloggi, occupazione e servizi sociali, ottimizzerà l'uso dei fondi pubblici.

- Il bilancio dello Stato sarà l'espressione della finalità, deve tradurre il riassetto dell'azione pubblica, l'autonomia e la responsabilità degli attori politici, la protezione ed il benessere del cittadino in un sistema di diritti e doveri reciproci.

- Degli obiettivi ambiziosi. Bisogna raddoppiare la produzione agricola e le entrate legate al turismo in dieci anni. Valorizzare il lavoro, l'imprenditorialità, agevolandoli attraverso un'adeguata politica sociale e la riduzione di costi ed oneri amministrativi. Creare una fiscalità utile alla piccola impresa.

- Lavorare con il sistema bancario per la creazione di fondi d'investimento allettanti, garantiti dallo Stato.

- Liberare le energie, ritrovare lo spirito imprenditoriale ed il dinamismo dei nostri antenati all'inizio del ventesimo secolo.

- Tutelare e migliorare la nostra terra, aumentare le entrate per il suo impiego ed il suo impegno.
- Ripensare l'azione sociale, uscire dalla logica dell'aiuto caritatevole per l' "aiutu", espressione di vera e propria solidarietà.

Questa politica economica equilibrata tra la produzione della ricchezza e la sua redistribuzione, privilegiando la crescita attraverso l'aumento dell'offerta può persino far uscire la Corsica da questa economia mantenuta artificialmente con la pseudo-solidarietà francese. Oggi la Corsica con qualche adattamento del suo sistema fiscale può disimpegnare un'entrata di 1,5 miliardi di euro all'anno.

Si tratta di una somma rilevante, che rende relativa al nostro sguardo la "generosità" dello Stato Francese, e che può consentire uno slancio economico della Corsica slegato dalla sollecitudine dei Francesi, ma realizzato in maniera endogena con il concorso di tutti i Corsi che ci troveranno il loro beneficio.

Iscritu dae: Clément Filippi
tradutzioni dae Antonella Pacilio
imprentau dae U RIBOMBU

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sighit quale economia ....corsica

torra agoa

QUALI SONO I MEZZI DI QUESTA AZIONE ECONOMICA

Ci sono tre grandi orientamenti, ridurre il pubblico impiego, aumentare il capitale delle conoscenze, aumentare la produzione e quindi la ricchezza. L'occupazione nel settore pubblico, sappiamo le cause, rappresenta quasi il 45% dell'occupazione totale e probabilmente un po' di più, se si contano tutte le varie associazioni finanziate da fondi esclusivamente pubblici. Questo settore è molto allargato e crea poca ricchezza. Bisognerebbe quindi ridurre del 25 o 30% i posti di lavoro e riconvertirli verso settori produttivi, come la sanità, l'istruzione e la formazione, la giustizia e la sicurezza.

L'amministrazione dello Stato deve essere ridotta allo stretto necessario, evitando la duplicazione dei servizi, doppi uffici nelle comunità locali, favorendo la molteplice competenza dei suoi funzionari.
L'economia della conoscenza nel nostro paese senza industria, senza risorse del sottosuolo è una via del futuro. L'università deve per questo essere sviluppata, diventare l'attore principale della formazione professionale ed impegnarsi decisamente nella ricerca applicata.
La creazione di ricchezza immateriale, la conoscenza, lo sviluppo della ricerca sulle fonti rinnovabili di energia, nell'ambiente, nelle nuove tecnologie nell'agro-alimentare sarà una fonte di reddito non trascurabile.

Aumentare la produzione, ciò è possibile senza scartare le problematiche ambientali. L'agricoltura biologica, la pastorizia, la pesca e l'acquacoltura, possono aumentare rapidamente la loro produzione del 50%. La domanda di prodotti di qualità con forte contenuto identitario è costante.
Il turismo, senza gli eccessi della massa deve fruttare di più. Oggi un turista medio spende circa cinquanta euro al giorno per dormire, mangiare, spostarsi, divertirsi ed acquistare.
E' veramente molto poco e prova, se ce ne fosse ancora bisogno, che il miliardo di euro di fatturato annuo può essere aumentato del 50, anzi del 100%, favorendo l'emergere di una clientela più facoltosa attirata dalle nostre risorse naturali.

IL PROGETTO DI UN ECONOMIA

Qualche principio di base:
La Corsica è parte integrante dell'Unione Europea, aderisce alla Zona Euro e rispetta i criteri di stabilità. Un equilibrio di bilancio, un debito controllato. L'adesione all'Unione Europea come Stato sovrano permette la negoziazione delle norme di produzione, agricola in particolare.

- L'economia corsa è basata sulla libera impresa e l'economia di mercato, ma respinge gli eccessi del capitalismo selvaggio.
Uno degli obiettivi della politica economica è la solidarietà per la redistribuzione della ricchezza. Lo Stato aiuta le persone in stato di bisogno, protegge i più vulnerabili. In cambio questi debbono alla collettività un'attività: Lo scopo non è l'arricchimento di pochi, ma la partecipazione di tutti ad un lavoro comune di progresso e benessere materiale e sociale.
Azioni economiche di rapida attuazione. Ciò si traduce in una spinta attraverso una politica di grandi lavori strutturali, facendo appello ai fondi europei, per migliorare l'economia.
Questa politica dovrebbe rafforzare le imprese locali di ingegneria civile, creare rapidamente posti di lavoro ed iniettare capitali nel sistema economico locale.

- Massicci investimenti in sviluppo della ricerca e formazione. Ripensare le produzioni per rafforzare la loro specificità ed utilizzare il vantaggio comparativo del marchio Corso, che unisce identità del processo di produzione, garanzia di qualità ambientale e di origine della materia prima, ad un alto contenuto culturale. Il completo cambiamento dei canali commerciali per aprirsi verso il Mediterraneo.

La Corsica deve inscriversi in particolare nell'asse Toscana-Sardegna e al di là dell'Africa del Nord. Questo asse Nord-Sud agevolerà le nostre esportazioni, diversificherà le nostre fonti di approvvigionamento, in particolare energetiche, e ridurrà i nostri costi d'importazioni. Le infrastrutture necessarie saranno in gran parte finanziate da Bruxelles nel quadro d' INTERREG.
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giovedì 5 febbraio 2009

sighit ORTEGA Y GASSET

Ecco perché, nel saggio "Le Atlantidi" (1924) Ortega y Gasset arriva alla conclusione che nessuna cultura, neppure quella europea, ha il diritto di pretendere di avere un'egemonia sulle altre; ogni cultura è uno specchio della verità. Soprattutto durante gli anni Venti e Trenta, il filosofo spagnolo elabora - sulla base della circostanzialità della vita - un'antropologia volta ad evitare riduzionismi (sia naturalistici, sia spiritualistici): l'uomo è un animale fantastico, del tutto diverso da ogni altro, poiché è il solo a non potersi mai definitivamente adattare al mondo circostante; in virtù del suo potere immaginativo, l'uomo duplica la realtà, creando un mondo interno e suo. Certo, l'uomo è anche un animale "tecnologico", che si serve delle innovazioni tecnologiche per piegare la circostanza, aggredendo il mondo, ma si tratta di vittorie fragili e di breve durata, che in definitiva vedono l'uomo sempre come perdente. E' durante gli anni '30 che Ortega intensifica il suo rapporto con la filosofia di Heidegger, protagonista indiscusso di quegli anni: ne scaturisce la ferma convinzione che la filosofia debba affrontare il problema dell'essere, scavalcando l'alternativa tra idealismo e realismo (l'essere non è né le cose esistenti in sé, né le cose pensate). L'essere dev'essere secondo Ortega cercato nella datità della vita, cioè nella "pura coesistenza di un io con le cose, delle cose dinanzi all'io" ("Algunas lecciones de metafisica"). All'ontologia spetta quindi il compito di individuare le categorie costitutive della vita: vivere è - heideggerianamente - "trovarsi nel mondo" a patire e insieme ad agire le cose in una mutua relazione, nella condizione di poter progettare se stessi in un margine di libertà; allora, se la vita è "un fa farsi", l'essere non è un qualcosa di già costituito, e che né le cose né l'uomo hanno per sé l'essere, il quale è, pertanto, "ciò che manca alla nostra vita, l'enorme buco o vuoto della nostra vita" ("Algunas lecciones de metafisica"). Ma - distaccandosi in questo da Heidegger - la domanda metafisica intorno all'essere non è originaria e costitutiva dell'esistenza: anzi, la filosofia come ricerca dell'essere inerisce sempre a una determinata situazione storico-culturale, e dunque non è detto che sia perenne. Con queste considerazioni sullo sfondo, Ortega, nella maturità del suo pensiero, approda allo storicismo: la ragione vitale diventa ragione storica. Gli scritti che documentano questa nuova stagione della riflessione orteghiana sono soprattutto "Intorno a Galileo" (1933), "Storia come sistema" (1935) e "La ragione storica" (1940): in esplicito contrasto con la tesi hegeliana della razionalità salvifica della storia, Ortega afferma con Dilthey che è la ragione stessa ad essere storica (e non la storia ad essere razionale), in quanto intrinseca alla vita dell'uomo (che, come abbiam detto, è un "da farsi"). Ma con questo Ortega non vuol ridurre la storia ad una mera sequenzialità caotica di eventi: in sintonia con Heidegger, sostiene la storicità dell'uomo e, come conseguenza, la necessità di porre un nucleo a priori, una sorta di ontologia della realtà storica ("istoriologia" la chiama Ortega), il cui ufficio è di dare la teoria della struttura essenziale della vita storica. In quest'ottica, il sapere storico si edificherà attraverso ipotesi che permettano di connettere quel nucleo a priori con i fatti empirici: per la conoscenza storica, in definitiva, è bene adottare lo stesso procedimento ipotetico-deduttivo adottato da Galileo per costruire la scienza della natura. In opposizione a Dilthey, Ortega respinge la distinzione tra spiegare e comprendere, sostenendo che la comprensione della vita umana debba sempre far in qualche modo riferimento a spiegazioni causali. Ne "La ribellione delle masse" (1930), che fu salutato dai contemporanei come un testo destinato ad avere il successo de "Il capitale" di Marx o de "Il contratto sociale" di Rousseau, Ortega prende in esame la crisi culturale e spirituale che travaglia l'Europa a lui contemporanea, ravvisandone l'origine nell' "avvento delle masse al pieno potere sociale". Ciò è il segno del venir meno della funzione della cultura, minacciata dalla massificazione dei valori e dei comportamenti: "la massa travolge tutto ciò che è diverso, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia 'come tutto il mondo', chi non pensi come 'tutto il mondo' corre il rischio di essere eliminato". L'uomo-massa, non identificabile con una particolare classe sociale, è l'uomo medio, senza qualità, soddisfatto di essere quel che è, non intenzionato a migliorare perché si considera già perfetto. La sua 'cultura' è fatta di "luoghi comuni, di pregiudizi, di parvenze di idee, o semplicemente di vocaboli vacui che il caso ha ammucchiato nella sua coscienza". Insomma, essa non è che barbarie: l'unico desiderio che ha l'uomo-massa è di soppiantare gli uomini a lui superiori; ed è così che, appunto, nasce la ribellione delle masse, l'azione diretta e la violenza come prima ratio, quando in una civiltà fondata sulla volontà di convivenza, sulla democrazia liberale, non potrebbero che essere l' ultima ratio.

torra sa defenza

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L’opposizione si presenta invece ancora divisa e per il ritorno ad un’era riformista diventa determinante il ruolo della nuova amministrazione americana: tra i candidati ci sono nomi quali Mehdi Karroubi, leader del partito Etemad Melli; Mohammad-Reza Aref, ex vice presidente del secondo mandato Khatami; Hossein ‎Kamali, capo del Hezbe Islami-e Kar (Partito Islamico del Lavoro); l'ex primo ministro Mir Hossein Mousavi, candidato del partito Mardomsalari, e Hassan Rowhani, sostenuto dall’ala moderata del partito Kargozaran. Non è poi ancora esclusa la partecipazione dell'ex presidente riformista Mohammad Reza Khatami, appoggiato da gran parte del mondo intellettuale e dalla gioventù studentesca.

Sono molte le ragioni per le quali Barack Obama è interessato al futuro dell’Iran: per l’importanza strategica, sia politica che militare; per la questione sul supporto che Teheran offre ai gruppi terroristici, fatto direttamente legato all’influenza shiita in Iraq, Afghanistan e nel vicino Medio Oriente; per il programma nucleare, problema che la Casa Bianca vorrebbe risolvere senza arrivare al muro contro muro e che rimane al centro dell’agenda del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Sono in molti a credere che comunque il presidente Usa, sperando nell’elezione di una figura più moderata, voglia guadagnare tempo e scoprire le carte dopo il 12 giugno. A questo punto sta ad Ahmadinejad dimostrarsi più moderato, perché il 12 giugno si vince solo se si parla il linguaggio del dialogo e, con Khatami, i riformisti hanno dimostrato di saperlo fare.

http://sadefenza.blogspot.com/

mercoledì 4 febbraio 2009

sghit Come gli Stati Uniti............................

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Finanziare la 'democrazia' stile USA

"Molto di ciò che facciamo oggi veniva fatto clandestinamente 25 anni fa dalla CIA", ha detto Allen Weinstein, uno dei fondatori del National Endowment for Democracy in un articolo pubblicato nel 1991 dal Washington Post.

Creato all'inizio degli anni Ottanta, il NED è "governato da un consiglio indipendente, non schierato politicamente". Il suo obiettivo dichiarato è offrire appoggio a organizzazioni filo-democratiche in tutto il mondo. Storicamente, però, la sua agenda è definita dagli obiettivi della politica estera statunitense.

"Quando si mette da parte la retorica della democrazia, il NED è uno strumento specializzato per penetrare nella società civile di altri paesi" per conseguire obiettivi della politica estera statunitense, scrive William Robinson, professore dell'Università di California-Santa Barbara, nel suo libro A Faustian Bargain. Robinson si trovava in Nicaragua alla fine degli anni Ottanta e vide come il NED collaborò con l'opposizione nicaraguense appoggiata dagli Stati Uniti per deporre i sandinisti durante le elezioni del 1990.

Il NED è stato anche pubblicamente accusato in Venezuela di avere finanziato il movimento anti-Chávez. Nel suo libro The Chávez Code, l'avvocatessa venezuelano-americana Eva Golinger scrive che i beneficiari del NED (e dell'USAID) sono stati coinvolti nel tentativo di colpo di stato del 2002 contro il Presidente venezuelano Hugo Chávez, e negli "scioperi dei lavoratori" contro l'industria petrolifera del paese. Golinger osserva poi che il NED ha finanziato anche la Súmate, una ONG venezuelana – il cui obiettivo dichiarato è promuovere il libero esercizio dei diritti politici dei cittadini – che orchestrò il fallito referendum revocatorio contro Chávez del 2004.

Dipendenza e sudditanza

Il concetto di separazione dei poteri tra la stampa e il governo è un assunto fondamentale non solo del sistema politico statunitense: è anche sancito dall'Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. I finanziamenti alla stampa erogati dal governo degli Stati Uniti rischiano di instaurare un rapporto beneficiato-benefattore che impedisce di considerare indipendente un mezzo di informazione.

"Perfino la donazione da parte del governo degli Stati Uniti di apparecchiature come computer e sistemi di registrazione influisce sul lavoro dei giornalisti e delle organizzazioni giornalistiche", dice Contreras, il giornalista boliviano, "perché crea dipendenza e sudditanza nei confronti degli obiettivi nascosti delle istituzioni statunitensi".




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Originale da: In These Times

Articolo originale pubblicato il 4 giugno 2008

L’autore

Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguística

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